Dies Irae: ossia angeli caduti e fanatismo popolare



Nel 1976, il ragionier Ugo Fantozzi (Paolo Villaggio), nel secondo film dedicato alle sue disavventure girato da Luciano Salce, era costretto, secondo quanto rivelato dalla voce narrante, a recarsi ogni settimana in ditta per ordine del direttore Professore Guidolbaldo Maria Riccardelli, appassionato di cinema d’essai, per assistere alla proiezione delle sue pellicole preferite. Chi conosce il film, sa bene come ad un certo punto il Ragioniere per antonomasia salga sul palco durante il dibattito e lanci il potente grido liberatorio: “Per me, la corazzata Kotiomkin (ossia la corazzata Potemkin, nda) è una CAGATA PAZZESCA!”, seguito subito dopo dagli iperbolici “novantadue minuti di applausi”. Tuttavia, il capolavoro di Ejzenstein non è il solo ad essere preso di mira da Paolo Villaggio, nella sua indomita rabbia contro un determinato tipo di cinema. A finire sotto accusa sono anche “L’uomo di Aran” di Flaherty e “Dies Irae” di Carl Theodor Dreyer. È su quest’ultimo che concentreremo la nostra attenzione.
Carl Theodor Dreyer è stato uno dei maggiori cineasti della storia. Di origine danese, ha confezionato diversi capolavori, che giustamente rientrano nella definizione di cinema d’arte e rappresentano, insieme ai film di Kubrick, Kurosawa, Bergman, Fellini e pochi altri, alcuni dei rari esempi in cui il cinema si realizza pienamente come arte. Dopo l’esordio, l’affermazione con film muti, tra cui lo splendido “La passione di Giovanna d’Arco” e una crisi di critica e botteghino, nel 1943 arriva Dies Irae, il primo dotato di dialoghi. Lungi dalla spropositata lunghezza attribuita da Fantozzi-Villaggio, il film ha una durata abbastanza breve (poco più di un’ora e mezza), eppure è così denso e ricco di contenuti da sembrare più lungo. La storia è ambientata in Danimarca, nel 1643: lo spettatore non si ritrova dinanzi una corte principesca, un florido villaggio o quelle componenti tipiche dei film in costume, specie sul Seicento, così concentrati sulle vicende di cappa e spada della più aristocratica nobiltà. La vicenda si svolge tutta in un villaggio dal sapore medioevale, nell’ambientazione come nei costumi e nelle usanze, un paese in cui ancora ardono i roghi delle streghe e l’Inquisizione fa da padrona. Absalon, un pastore protestante, è sposato con Anne, figlia di una donna sospettata di stregoneria e che proprio Absalon, pur essendo membro dell’Inquisizione, salvò dalle fiamme del rogo per amore della moglie, molto più giovane di lui. Il rogo di un’anziana donna, anch’essa sospettata di stregoneria, e il ritorno a casa del figlio di Absalon segneranno l’innescarsi di una nefasta serie di eventi. La storia è pervasa da una forte ambiguità. Fino all’ultimo non è chiaro se le donne protagoniste del film siano veramente in grado di padroneggiare poteri malefici o se siano semplicemente vittime della follia e della suggestione del popolo. A ciò contribuiscono i lunghi silenzi, gli sguardi, i giochi di luce e ombra che accompagnano le entrate e le uscite di scena dei protagonisti, i dialoghi spezzati che sembrano avere più di una possibile conclusione, la storia in sé. Dreyer crea un affresco storico veritiero, a tratti duro e grottesco, in cui sembra di sentire echeggiare le parole del Dies irae, la più inquietante delle preghiere della liturgia cristiana, che dà il titolo al film e che è recitata nella scena iniziale e in quella finale dalla voce fuori campo. A visione ultimata, ne viene fuori un mondo destinato alla dannazione: la linea di demarcazione tra salvabili e dannabili è così sottile da essere inesistente, ognuno dei personaggi sembra essere destinato al fuoco eterno. Non è possibile riscontrare un solo personaggio positivo: persino Absalon, fondamentalmente buono, non suscita compassione alcuna. Avviene così che Dreyer tracci dei profili psicologici carichi di forti ambiguità, tormentati, ricchi di conflitti mai sanati, figure schiacciate dal peso della colpa e dal comune senso del peccato, che domina l’epoca dei roghi. Su tutte, spicca la figura di Anne, angelo tormentato del focolare, anima sensuale e dannata, moglie timorosa eppure repressa, amante innamorata e sfrenata. Dreyer ne traccia un ritratto oscuro, basato sulle sue apparizioni in scena e su battute in absentia, arrivando ad allestire sin dal primo minuto una sorta di processo, alla fine del quale ella diventa un angelo caduto eppure, nonostante tutto, innocente, prova ne è la sua quasi eroica uscita di scena.
La scena finale, in cui Anne confessa di essere stata causa della morte del marito a causa di un patto diabolico e la chiusura con le ultime parole del Dies irae, non contribuisce a sciogliere i dubbi dello spettatore. Diverse sono infatti le possibili interpretazioni: una, che è tipica del mondo protestante e in particolar modo calvinista, vede l’umanità come predestinata alla dannazione, eternamente tentata dal demonio, priva di vera bontà, ma nonostante tutto amata da Dio; una seconda, vuole che il film sia una parabola contro il fanatismo religioso e in tal caso, “Dies irae” sarebbe da collocare all’interno di un cinema impegnato, laico e libertario, moderno nel vero senso del termine; da un altro punto di vista, esso sarebbe un’analisi freudiana delle pulsioni di amore e morte interne nell’essere umano nonché nell’istituzione della famiglia. Niente, si vede, è facilmente interpretabile.
Cosa dire di più? “Dies irae” è semplicemente un capolavoro. Tematiche (che, per il modo in cui sono affrontate, lo rendono già sublime) a parte, le tecniche formali che lo accompagnano segnano notevoli passi avanti nell’evoluzione della settima arte: i primi piani sui volti dei personaggi sono paragonabili solo a quelli di Ejzenstein nell’attenzione ai tratti somatici, alle loro contrazioni e distensioni, il gioco di luce e ombra è un espediente dai risvolti psicologici e le scene d’interni sono girate con un gusto per il buio e il claustrofobico, espedienti questi che Dreyer eredita dall’espressionismo tedesco e che fa suoi, rinnovandoli e migliorandoli, firmando così un capolavoro assoluto.

di Pippo Di Mauro.


VOTO: *****

Regia: Carl Theodor Dreyer
Sceneggiatura: Carl Theodor Dreyer
Produzione: Carl Theodor Dreyer
Interpreti principali: Lisbeth Movin, Thorkild Roose
Genere: Drammatico
Anno: 1943

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