Classifica dei 10 Migliori Film del 2011 secondo ''THE FINAL CIAK!''



1) The Tree of Life *****

Regia: Terrence Malick
Sceneggiatura: Terrence Malick
Interpreti: Sean Penn, Brad Pitt,
Jessica Chastain
Genere: Drammatico
Durata: 142 minuti





2) The Artist *****


Regia: M. Hazanavicius
Sceneggiatura: M. Hazanavicius
Interpreti: Jean Dujardin, Berenice Bejo,
John Goodman, James Cromwell
Genere: Commedia drammatica
Durata: 101 minuti














3) Midnight in Paris ****


Regia: Woody Allen
Sceneggiatura: Woody Allen
Interpreti: Owen Wilson, Rachel McAdams
Marion Cotillard
Genere: Commedia, Fantastico
Durata: 100 minuti









4) This Must Be The Place ****


Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto
Contarello
Interpreti: Sean Penn, Frances 
McDormand
Genere: Drammatico
Durata: 118 minuti










5) Terraferma ****


Regia: Emanuele Crialese
Sceneggiatura: Emanuele Crialese
Interpreti: Donatella Finiocchiaro,
Beppe Fiorello, Filippo Pucillo
Genere: Drammatico
Durata: 88 minuti












6) The Fighter ****


Regia: David O. Russel
Sceneggiatura: Keith Dorrington
Interpreti: Mark Wahlberg, Christian Bale,
Melissa Leo, Amy Adams
Genere: Biografico, Drammatico
Durata: 115 minuti










7) Il Grinta ****


Regia: Joel e Ethan Coen
Sceneggiatura: Joel e Ethan Coen
Interpreti: Jeff Bridges, Matt Damon, Josh Brolin
Genere: Western, Avventura
Durata: 110 minuti










8) La Pelle che Abito *** 1/2


Regia: Pedro Almodovar
Sceneggiatura: Pedro Almodovar
Interpreti: Antonio Banderas, Elena Anaya
Marisa Paredes
Genere: Drammatico, Thriller
Durata: 120 minuti










9) Le Idi di Marzo *** 1/2


Regia: George Clooney
Sceneggiatura: George Clooney
Interpreti: George Clooney, Ryan Gosling
Philip Hoffman, Paul Giamatti
Genere: Thriller politico, Drammatico
Durata: 98 minuti








10) Le Avventure di Tin Tin *** 1/2


Regia: Steven Spielberg
Sceneggiatura: Steven Moffat
Genere: Animazione, Avventura
Durata: 107 minuti












di Andrea Raciti





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''THE FINAL CIAK!'' spegne la prima candelina!






Ebbene si! E' passato un anno esatto da quella serata autunnale dell' 8 dicembre del 2010, da quando diedi vita a questa ''creatura'' virtuale, chiamandola con un nome che evocasse qualcosa di compiuto, definitivo, appunto un ''ciak finale''. Un'immagine semplice che personalmente mi aveva sempre affascinato. 
Nel corso di quest'anno, nonostante il blog abbia ottenuto una sua ''sistematicità'', con una netta distinzione fra le varie categorie di articoli ( recensioni, classifiche, articoli sui grandi registi, etc), sono contento di affermare che, come è tipico per un blog, ''THE FINAL CIAK!'' è sempre rimasto un contenitore di liberi pensieri sul cinema, pensieri che sono stati sempre frutto delle passioni, delle suggestioni, dei desideri dell'autore. Questo blog ha tenuto sempre presente un obiettivo semplice: presentare nel modo più completo ed esauriente possibile gli argomenti trattati, in modo da dare al lettore la possibilità di apprestarsi alla visione di un film in modo critico e consapevole. Questa capacità purtroppo non sembra più appartenere alla maggioranza del pubblico del cinema, che, forse a causa della società di massa consumista, ma anche per colpa delle strategie hollywoodiane e non di stampo quasi esclusivamente commerciale, considera ormai la visione di un film alla stregua della consumazione di un pasto al McDonald's. E' triste vedere la settima arte essere ridotta ad un semplice prodotto di consumo veloce e di intrattenimento facile. Con ciò non si vuole affatto affermare che il cinema debba perdere la sua funzione di intrattenimento, ma è pur vero che è possibile realizzare film di intrattenimento, e di successo, ma di grande spessore artistico ( i film di Woody Allen, dei Coen, di Scorsese, di Tarantino o di Sorrentino per citarne alcuni) o al contrario, di grandissimo impatto commerciale, ma insignificanti dal punto di vista artistico, costruiti praticamente ''a tavolino'' per sbancare il botteghino ( i film di Neri Parenti e Vanzina in Italia, i vari Saw, Paranormal Activity, Twilight, gli ultimi Harry Potter per gli USA, ma ce ne sarebbero a bizzeffe). Sembra che ci sia la volontà da parte delle industrie cinematografiche di far dimenticare al pubblico la lezione fondamentale dei grandi Maestri  (Fellini, Kubrick, Wells, Ford, Hitchcock, Leone, Visconti, Pasolini e molti altri): il grande cinema deve essere un'opera d'arte, frutto di un atto creativo incondizionato, che riesca a fondere il piacere dell'intrattenimento con l'attenta riflessione critica. Ma ancora, forse, il cinema contemporaneo non è arrivato così in basso da non poter tentare una radicale rivoluzione culturale e di  forma mentis  al suo interno: almeno così di spera!
Dopo questa breve riflessione, per la ricorrenza di questo primo anno di vita del blog, vorrei ringraziare per la loro importantissima collaborazione: Lorzo94, nuovo autore del blog da Settembre, già esordiente con la recensione su Eraserhead , e Pippo di Mauro, che ha scritto per il blog la recensione su Dies Irae. Infine, ringrazio tutti i lettori, fissi e saltuari, che hanno avuto il piacere di informarsi su questo blog! 
Alla prossima recensione!

Andrea Raciti










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Classifica delle 10 migliori commedie della storia del cinema secondo ''THE FINAL CIAK!''





La Classifica:

1) La Febbre dell'Oro (1925) di Charles Chaplin
2) Amarcord (1973) di Federico Fellini
3) Tempi Moderni (1936) di Charles Chaplin- Fra Diavolo (1933) di Hal Roach
4) Il Grande Lebowski (1998) di Joel e Ethan Coen
5) A Qualcuno Piace Caldo (1959) di Billy Wilder
6) I Soliti Ignoti (1958) di Mario Monicelli
7) Manhattan (1979) di Woody Allen
8) Frankenstein Junior (1974) di Mel Brooks
9) The Blues Brothers (1980) di John Landis
10) M*A*S*H (1970) di Robert Altman

di Andrea Raciti














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Classifica dei 10 migliori registi americani del XX secolo

In questa specifica classifica, verrà aggiunto fra parentesi accanto al nome di ogni cineasta, il film che il blog considera il migliore di ciascun regista. 






La Classifica:

1) Stanley Kubrick (2001: Odissea nello Spazio)- Orson Welles (Quarto Potere)
2) John Ford (Furore)
3) Martin Scorsese (Quei Bravi Ragazzi)
4) Quentin Tarantino (Pulp Fiction)- F.F. Coppola (Il Padrino)
5) Howard Hawks (Il Fiume Rosso)
6) Joel e Ethan Coen (Crocevia della Morte)
7) Steven Spielberg (Schindler's List)
8) Sam Peckinpah (Il Mucchio Selvaggio)
9) Frank Capra (La Vita è Meravigliosa
10) David Lynch ( Una Storia Vera)- Woody Allen (Manhattan)

di Andrea Raciti


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Gran Torino: trionfo della morale sulla violenza primordiale



Dopo 30 anni di carriera alla regia, e quasi 50 complessivi nel mondo del cinema a partire dal suo esordio di fatto nel grande cinema in Per un pugno di dollari (1964) di Sergio Leone, Clint Eastwood continua a sorprendere pubblico e critica con film assolutamente originali e soprattutto molto provocatori, poichè spingono il pubblico a riflettere sui temi che Clint considera universali. Con lo stesso sguardo duro, impietoso e indagatore che è rimasto impresso in tutti coloro che lo videro come attore nei western di Sergio Leone, ancora oggi, anche se con lo sguardo del regista, Clint Eastwood continua ad analizzare temi e problematiche che non riguardano solo la società americana, ma la civiltà occidentale in generale. In Million Dollar Baby (2004), Eastwood aveva affrontato l'attualissimo tema dell'eutanasia con sguardo distaccato e disilluso, quasi pervaso da un pessimismo radicale
Ma già nel suo western Gli Spietati (1992), domina una visione pessimista della realtà, vista come governata dalla violenza, dalla legge del più forte, dall'avidità dell'uomo, la cui natura incline al male resta immutabile nella Storia. Ebbene, Eastwood, raggiunti ormai gli 80 anni di età, non si è affatto irrigidito nelle sue posizioni, ma anzi sembra che abbia ormai messo in atto un processo di evoluzione stilistica e tematica veramente originale, che tende ad unire una forma ''classica'', da film americano vecchio stampo, a contenuti contemporanei, quindi tematiche attuali e provocatorie. Gran Torino (2009), per il sottoscritto, rappresenta certamente il risultato migliore del cinema di Eastwood, almeno finora, l'apice della carriera da regista del protagonista di Fuga da Alcatraz. Il film si presenta innanzitutto come un'opera semplice, genuina, lineare, senza sbavature, un meccanismo armonioso delle varie vicende di un personaggio, un uomo, che, trovandosi nell'ultimo periodo della sua esistenza, deve rivedere e rivalutare il significato, le convinzioni e le scelte di una vita. Sostanzialmente pertanto, la vicenda che Eastwood vuole raccontare è la storia di una redenzione. Secondo questo aspetto, il film non potrebbe essere più classico, quindi legato ad una tematica che il cinema hollywoodiano dei tempi d'oro di Frank Capra, John Ford e Howard Hawks, aveva sviluppato compiutamente, da ricordare capolavori come Sentieri Selvaggi (1956) di Ford o Arriva John Doe (1946) di Capra. Gran Torino naturalmente, si presenta sì come opera legata al cinema americano classico, ma che allo stesso tempo rimane un prodotto del suo tempo, e  di conseguenza legato ai problemi della propria epoca. Infatti, il film si può dire caratterizzato da una descrizione estremamente realista della società americana multi-etnica, in particolare delle tensioni sociali nelle periferie delle grandi città americane, in cui convivono, ma per lo più si scontrano, asiatici di diverse etnie,italiani,afro-americani, etc. Viene rappresentata una realtà violenta e senza scampo per la povera gente che subisce l'indifferenza dello Stato, le cui conseguenze si presentano sotto forma di: alto tasso di delinquenza, spaccio di droga, estorsione, prostituzione e sfruttamento del lavoro minorile. Quindi, come ci si aspetta dal miglior Eastwood, tale descrizione si presenta scevra da qualunque tendenza alla ''mitizzazione'' e, ancor più, alla mistificazione dei fatti. Ma lo scopo (più che esplicito) del film, non si limita assolutamente alla presa d'atto di una realtà degradata, al semplice raggiungimento della consapevolezza della naturale e istintiva tendenza dell'uomo alla violenza e alla sopraffazione dell' altro, del concetto hobbesiano dell' ''homo homini lupus'' ('' l'uomo è un lupo per l'uomo''). Infatti, come già specificato prima, il film è la storia delle redenzione di un uomo, il che presuppone sì l'accettazione di una natura umana inevitabilmente peccatrice, ma anche uno spiraglio di speranza che si trova nell'uomo stesso
La vicenda è ambientata nella periferia di una cittadina americana del Midwest ai giorni d'oggi, e Walt Kowalski (Clint Eastwood), ottantenne scorbutico, veterano della guerra di Corea, ex operaio della Ford, conservatore e tradizionalista, animato da un forte razzismo, è rimasto vedovo. I suoi figli e i suoi nipoti lo odiano, ma sono contraccambiati dal vecchio Walt. La più grande passione di Walt è la sua macchina sportiva d'epoca, una Ford Gran Torino del '72, un vero gioiello. Da un po di tempo una famiglia hmong (etnia originaria della Cina, Vietnam e Thailandia) si è trasferita proprio vicino casa sua. All'inizio fra i hmong e Walt non si instaura alcun rapporto, ma tutto cambia quando il vecchio ex veterano salva il giovane hmong Tao dalla gang del cugino, che aveva tentato di portare sulla cattiva strada l'impacciato, ma onesto, ragazzo. Walt comincerà così a frequentare più spesso la casa dei suoi vicini asiatici, grazie all'insistente e coraggiosa sorella di Tao. Walt prima con diffidenza, ma col tempo sempre più, comprenderà di avere molto più in comune con gli hmong che con i suoi parenti. L'impacciato Tao inoltre, viene mandato dalla famiglia a lavorare presso Walt, soprattutto per rimediare al tentato furto della Gran Torino del vecchio, quando la gang del cugino aveva tentato di fargli compiere una sorta di ''iniziazione''. Walt comincia a far fare piccoli lavoretti al ragazzo, cerca di farlo ''diventare un uomo'', come afferma Walt stesso, gli insegna il valore del rispetto reciproco, del lavoro onesto e anche ad arrangiarsi nelle situazioni difficoltose della vita; gli insegna anche il mestiere dell'operaio edile, trovandogli lavoro in un cantiere, gli compra gli attrezzi e all'occorrenza gli presta i suoi. Il ragazzo lava spesso la Gran Torino di Walt. Da impacciato, maldestro e timido ragazzo, Tao riuscirà ad acquisire fiducia in se stesso e nelle sue capacità grazie al carisma e all'energia di Walt, che ,in compenso, attenua il suo carattere scorbutico e ''leggermente'' razzista grazie all'amicizia con Tao e i suoi familiari hmong. Ma la gang del cugino di Tao non si arrende ancora, e così i delinquenti pestano il povero ragazzo. Walt, per vendicare Tao, massacra di botte un membro della gang di Spider, il cugino di Tao. Ma purtroppo ''sangue chiama sangue'', e così Spider e i suoi controbattono nel modo più barbaro, stuprando  la sorella di Tao. Tutti a questo punto, si aspettano una reazione violenta e sanguinaria da parte di Walt contro la gang, una spedizione punitiva come sarebbe normale attendersi da uno come lui, Tao stesso pretende una vendetta inesorabile. Ma è a questo punto che Walt stupisce tutti. Il vecchio si presenta solo e disarmato davanti alla casa di Spider, piena di gente armata fino ai denti, e così il vecchio, facendo il gesto di prendere la pistola prende in realtà l'accendino, e cosi si fa uccidere volontariamente, crivellato dai proiettili dei delinquenti, ma di fronte a molti testimoni. All'arrivo di Tao, Spider e tutta la sua gang sono già stati arrestati. Alla lettura del testamento di Walt, che aveva scritto nel giorno fatidico, ormai consapevole della fine imminente, si scopre che l'uomo aveva lasciato la sua casa alla Chiesa, e la sua preziosa Gran Torino a Tao. 
Gran Torino, come ci si aspetta da un grande film, tratta all'interno di una storia semplice e lineare, delle tematiche veramente universali che vengono affrontate con grande sensibilità e umanità. Walt, interpretato da un superbo Eastwood, è naturalmente il personaggio chiave per la comprensione del messaggio del film. Il protagonista infatti, attraversa un cambiamento morale radicale, in cui risulta evidente il conflitto interiore, presente in ogni uomo, fra ragione e istinto. Evidenziando l'innegabile duplicità della natura umana, Eastwood mostra come un uomo possa riuscire a sottomettere l'impulso, il conatus, che lo porta a sopraffare gli altri mediante la violenza, ad una istanza superiore: cioè la ragione, che è invece portatrice e, kantianamente, creatrice della legge morale. Walt, uomo che spontaneamente era portato all'uso della violenza per risolvere qualunque conflitto, capirà che obbedire a quest'impulso naturale significa causare una catena di violenza inesorabile. Infatti, la sua vendetta su un membro della gang di Spider, causerà lo stupro della sorella di Tao. Walt dà un  segno radicale di discontinuità: egli spezza la catena di violenze agendo secondo una moralità ferrea e,soprattutto, disinteressata. Non c'è altro scopo se non l'azione buona in se stessa nel sacrificio finale di Walt: sostanzialmente, è l'intenzione dell'azione e non il risultato a rendere l'azione di Walt universalmente reputabile come giusta. La scelta di Walt di non voler continuare la sua battaglia personale contro la gang, rende evidente la sua completa consapevolezza che per fermare la violenza bisogna riconoscere la dignità umana in ciascun uomo, anche nel più malvagio, considerando ''l'umanità nella tua persona e nella persona di ogni altro'' , come afferma Kant nella Critica della ragion pratica. Da questa riflessione, emerge lo scopo didascalico del film: lo spettatore, come Tao nel film, è portato a credere che Walt/Clint debba compiere una vendetta inesorabile armato di doppietta e 44 magnum, compiendo una carneficina come ai vecchi tempi de Il buono, il brutto, il cattivo; chi non l'ha creduto, e forse, anche sperato intensamente vedendo il film? Ciò invece non accade, Clint supera lo stereotipo, il mito del suo stesso personaggio, preferendo piuttosto mostrare un'altra strada allo spettatore, che può essere inusuale, contraria al ''senso comune'', addirittura considerata da folli, ma che proprio per questa difficoltà nel poterla percorrere, può essere veramente definita come l'unica via affinchè la vera giustizia trionfi sulla violenza primordiale. Clint si sarà probabilmente ispirato a uno dei massimi capolavori del cinema classico hollywoodiano, cioè il western Mezzogiorno di Fuoco (1952) di Zinnemann, in cui uno sceriffo (Gary Cooper) affronta,obbedendo alla sua moralità e senso di giustizia, una banda di delinquenti, nonostante tutti gli abitanti della cittadina, gli amici e la moglie stessa lo abbandonino, non condividendo la sua scelta. Ma il personaggio di Walt, rappresenta non solo un ideale di redenzione individuale, ma anche il passaggio ( sempre ideale) nell'uomo americano, ma occidentale in generale, dal razzismo e dalla xenofobia efferata, alla convivenza pacifica con tutte le etnie. Per concludere, Gran Torino rappresenta nella carriera di Eastwood il passaggio da un cinema che esprimeva una visione profondamente pessimista della realtà (Gli Spietati o Million Dollar Baby), ad un cinema che vede nell'uomo una profonda esigenza, quasi un ansia, di giustizia e di valori positivi, a dispetto di qualunque brama di potere o egoismo. Il film è veramente un gioiello raro nel panorama del cinema americano, un piccolo, grande capolavoro, che possiede tutte le potenzialità per divenire un classico.

di Andrea Raciti


VOTO: *****

Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Nick Shenk
Produzione: Clint Eastwood, Bill Gerber
Interpreti principali: Clint Eastwood, Bee Vang, Ahney Her, Christopher Carley
Genere: Drammatico
Anno: 2008

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Dies Irae: ossia angeli caduti e fanatismo popolare



Nel 1976, il ragionier Ugo Fantozzi (Paolo Villaggio), nel secondo film dedicato alle sue disavventure girato da Luciano Salce, era costretto, secondo quanto rivelato dalla voce narrante, a recarsi ogni settimana in ditta per ordine del direttore Professore Guidolbaldo Maria Riccardelli, appassionato di cinema d’essai, per assistere alla proiezione delle sue pellicole preferite. Chi conosce il film, sa bene come ad un certo punto il Ragioniere per antonomasia salga sul palco durante il dibattito e lanci il potente grido liberatorio: “Per me, la corazzata Kotiomkin (ossia la corazzata Potemkin, nda) è una CAGATA PAZZESCA!”, seguito subito dopo dagli iperbolici “novantadue minuti di applausi”. Tuttavia, il capolavoro di Ejzenstein non è il solo ad essere preso di mira da Paolo Villaggio, nella sua indomita rabbia contro un determinato tipo di cinema. A finire sotto accusa sono anche “L’uomo di Aran” di Flaherty e “Dies Irae” di Carl Theodor Dreyer. È su quest’ultimo che concentreremo la nostra attenzione.
Carl Theodor Dreyer è stato uno dei maggiori cineasti della storia. Di origine danese, ha confezionato diversi capolavori, che giustamente rientrano nella definizione di cinema d’arte e rappresentano, insieme ai film di Kubrick, Kurosawa, Bergman, Fellini e pochi altri, alcuni dei rari esempi in cui il cinema si realizza pienamente come arte. Dopo l’esordio, l’affermazione con film muti, tra cui lo splendido “La passione di Giovanna d’Arco” e una crisi di critica e botteghino, nel 1943 arriva Dies Irae, il primo dotato di dialoghi. Lungi dalla spropositata lunghezza attribuita da Fantozzi-Villaggio, il film ha una durata abbastanza breve (poco più di un’ora e mezza), eppure è così denso e ricco di contenuti da sembrare più lungo. La storia è ambientata in Danimarca, nel 1643: lo spettatore non si ritrova dinanzi una corte principesca, un florido villaggio o quelle componenti tipiche dei film in costume, specie sul Seicento, così concentrati sulle vicende di cappa e spada della più aristocratica nobiltà. La vicenda si svolge tutta in un villaggio dal sapore medioevale, nell’ambientazione come nei costumi e nelle usanze, un paese in cui ancora ardono i roghi delle streghe e l’Inquisizione fa da padrona. Absalon, un pastore protestante, è sposato con Anne, figlia di una donna sospettata di stregoneria e che proprio Absalon, pur essendo membro dell’Inquisizione, salvò dalle fiamme del rogo per amore della moglie, molto più giovane di lui. Il rogo di un’anziana donna, anch’essa sospettata di stregoneria, e il ritorno a casa del figlio di Absalon segneranno l’innescarsi di una nefasta serie di eventi. La storia è pervasa da una forte ambiguità. Fino all’ultimo non è chiaro se le donne protagoniste del film siano veramente in grado di padroneggiare poteri malefici o se siano semplicemente vittime della follia e della suggestione del popolo. A ciò contribuiscono i lunghi silenzi, gli sguardi, i giochi di luce e ombra che accompagnano le entrate e le uscite di scena dei protagonisti, i dialoghi spezzati che sembrano avere più di una possibile conclusione, la storia in sé. Dreyer crea un affresco storico veritiero, a tratti duro e grottesco, in cui sembra di sentire echeggiare le parole del Dies irae, la più inquietante delle preghiere della liturgia cristiana, che dà il titolo al film e che è recitata nella scena iniziale e in quella finale dalla voce fuori campo. A visione ultimata, ne viene fuori un mondo destinato alla dannazione: la linea di demarcazione tra salvabili e dannabili è così sottile da essere inesistente, ognuno dei personaggi sembra essere destinato al fuoco eterno. Non è possibile riscontrare un solo personaggio positivo: persino Absalon, fondamentalmente buono, non suscita compassione alcuna. Avviene così che Dreyer tracci dei profili psicologici carichi di forti ambiguità, tormentati, ricchi di conflitti mai sanati, figure schiacciate dal peso della colpa e dal comune senso del peccato, che domina l’epoca dei roghi. Su tutte, spicca la figura di Anne, angelo tormentato del focolare, anima sensuale e dannata, moglie timorosa eppure repressa, amante innamorata e sfrenata. Dreyer ne traccia un ritratto oscuro, basato sulle sue apparizioni in scena e su battute in absentia, arrivando ad allestire sin dal primo minuto una sorta di processo, alla fine del quale ella diventa un angelo caduto eppure, nonostante tutto, innocente, prova ne è la sua quasi eroica uscita di scena.
La scena finale, in cui Anne confessa di essere stata causa della morte del marito a causa di un patto diabolico e la chiusura con le ultime parole del Dies irae, non contribuisce a sciogliere i dubbi dello spettatore. Diverse sono infatti le possibili interpretazioni: una, che è tipica del mondo protestante e in particolar modo calvinista, vede l’umanità come predestinata alla dannazione, eternamente tentata dal demonio, priva di vera bontà, ma nonostante tutto amata da Dio; una seconda, vuole che il film sia una parabola contro il fanatismo religioso e in tal caso, “Dies irae” sarebbe da collocare all’interno di un cinema impegnato, laico e libertario, moderno nel vero senso del termine; da un altro punto di vista, esso sarebbe un’analisi freudiana delle pulsioni di amore e morte interne nell’essere umano nonché nell’istituzione della famiglia. Niente, si vede, è facilmente interpretabile.
Cosa dire di più? “Dies irae” è semplicemente un capolavoro. Tematiche (che, per il modo in cui sono affrontate, lo rendono già sublime) a parte, le tecniche formali che lo accompagnano segnano notevoli passi avanti nell’evoluzione della settima arte: i primi piani sui volti dei personaggi sono paragonabili solo a quelli di Ejzenstein nell’attenzione ai tratti somatici, alle loro contrazioni e distensioni, il gioco di luce e ombra è un espediente dai risvolti psicologici e le scene d’interni sono girate con un gusto per il buio e il claustrofobico, espedienti questi che Dreyer eredita dall’espressionismo tedesco e che fa suoi, rinnovandoli e migliorandoli, firmando così un capolavoro assoluto.

di Pippo Di Mauro.


VOTO: *****

Regia: Carl Theodor Dreyer
Sceneggiatura: Carl Theodor Dreyer
Produzione: Carl Theodor Dreyer
Interpreti principali: Lisbeth Movin, Thorkild Roose
Genere: Drammatico
Anno: 1943

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Classifica dei 10 migliori film kolossal della storia del cinema secondo ''THE FINAL CIAK!''




La Classifica:

1) Apocalypse Now (1979) di F.F. Coppola
2) Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti
3) Ben Hur (1959) di William Wyler
4) Il Signore degli Anelli- saga (1999-2003) di Peter Jackson
5) I Dieci Comandamenti (1956) di Cecil B. DeMille
6) Ran (1985) di Akira Kurosawa
7) Star Wars- saga (1977-2005) di George Lucas
8) C'era una volta il West (1968) di Sergio Leone
9) Quo Vadis? (1951) di Mervyn Leroy
10) La regina delle piramidi (1955) di Howard Hawks 

di Andrea Raciti



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Eraserhead: un' incomprensibile ansia da soffocamento




Ci troviamo di fronte ad un immenso fiocco di cotone che ci stritola, ci avvolge da ogni parte, soffocandoci lentamente. In sostanza, questo è " Eraserhead" (La mente che cancella).

Un universo dove la visione onirica si mescola inestricabilmente con la realtà, dove l'emozione esce dal mondo dell'astrattezza e diventa tangibile, concreta.

Il tipografo Henry è una figura che a prima vista può sembrare convenzionale. Il solito e squallido strumento di una società che definirei pirandelliana. Tuttavia, il film non vuole presentare uno spaccato sociale, assolutamente, ma una speculazione cristallina e multiforme delle ossessioni, delle paure, del senso di sconforto e di annichilimento di fronte ai mostri delle nostre responsabilità, ed infine l'evasione.

Se questo è però, a mio avviso, il messaggio di fondo, è ovvio che la pellicola è incessantemente solcata da elementi apparentemente non-sense, ma che ritengo facciano parte della sfera intima del regista, che vuole farci comprendere la complessità e l'orrore dell'animo umano.

Henry si muove quasi strisciando dentro questo buco di mondo. Un mondo estraneo alla luce e al dialogo, altro, che a mala pena ci sembra riconducibile al nostro, ma dal quale tuttavia ci sentiamo un pò tutti sfiorati.

La scenografia, come suggerivo più su, è appunto costruita per rendere la scena insopportabile, malsana, patologica, a partire dagli arredamenti e dai costumi squallidi e decadenti fino ad arrivare alla gestione degli spazi.
Angusti, consumanti sono i buchi dentro i quali si svolgono le scene, buchi che non lasciano spazio nemmeno ad un accenno di luce che possa illuminare (ed in senso lato risvegliare) i protagonisti in questo torbido e sporco mondo allucinante e tremendamente onirico. Un mondo surreale, popolato da bambini grotteschi e mostruosi, da vermi che si insinuano in continuazione nella nostra cristallina razionalità, minacciandola dall'interno.


La recitazione non è affidata al dialogo, e questo fattore rende l'opera meravigliosamente elitaria.
I personaggi manifestano la loro interiorità non attraverso le parole, ma per mezzo di gesti quasi frenetici, di espressioni a tratti apatiche e confuse, a tratti nevrotiche, folli, schizzate. Le parole non possono esprimere la complessità della trama confusionaria di sensazioni, visioni, allucinazioni, paure e miraggi che ristagna nell'uomo.


In definitiva, ritengo che Eraserhead sia un esperimento più unico che raro. Un film fatto di fumi, di sbuffi eterei e illusori, di esalazioni lisergiche che avvolgono lo spettatore, trascinandolo improvvisamente in un mondo che risulta inaccettabile per la nostra razionalità borghese. è un titolo che però lascia il tempo che trova. E forse è meglio così. La gente della nostra generazione non è sicuramente pronta per emulare nemmeno un pallido bagliore della complessità e della frenesia che La mente che cancella suscita nell'angolo ultimo del nostro raziocinio.




di Lorzo 94




VOTO: *****


Regia: David Lynch
Sceneggiatura: David Lynch
Interpreti principali: Jack Nance, Jeanne Bates, Charlotte Stewart
Genere: Surrealismo, Grottesco
Anno: 1977




















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Super 8: non bastava forse E.T.?



Se si può essere scettici sull'esistenza reale degli extra-terrestri, non possiamo però non essere sicuri di un fatto:  è stato Steven Spielberg a crearli per il cinema! Film ormai storici, come Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) e soprattutto E.T.- L'extra-terrestre (1982), hanno cambiato il modo di concepire il cinema di fantascienza, non solo grazie all'aumento ed il miglioramento degli effetti speciali, ma soprattutto in seguito al radicale cambiamento nello stile narrativo. Al centro di queste pellicole, E.T. su tutte, non ci sono più scienziati che affrontano alieni malvagi e con mire di conquista nei confronti della Terra. I protagonisti diventano i ragazzi, poco più che bambini, che al contrario degli adulti, rigidi mentalmente e pieni di pregiudizi, incontrano e stringono amicizia con degli alieni buoni, innocenti e docili. L'atmosfera fiabesca, magica e pura di film come E.T., ma anche A.I, resta irripetibile, e adesso, dopo l'uscita di Super 8, si potrebbe dire anche inimitabile. J.J. Abrams, regista del film e creatore della serie televisiva Lost, come gran parte della sua generazione, si è ''nutrito'' dei film di Spielberg, li ha amati e ne ha compreso lo stile, le soluzioni narrative e i personaggi. Così nasce Super 8, che per giunta viene prodotto dal principale ispiratore di Abrams, e, dopo questo film, più che mai mentore e maestro: come non detto, non è altro che Steven Spielberg!
Super 8 era stato già mastodonticamente pubblicizzato, addirittura in un teaser contemporaneamente all'uscita di Iron Man 2 nel 2010; il film di Abrams viene considerato unanimemente da molti recensori un capolavoro, quasi un ''classico'', ancor prima di uscire nelle sale, nella giornata del 9/09/2011. Non essendo immune alle campagne pubblicitarie di forte impatto, sono andato a vedere il film per pura curiosità, e in verità, non molto attratto dalla famosissima firma di J.J. Abrams, perchè (mea culpa forse!) non avrò visto più di 2 o 3 puntate della celeberrima Lost (anche se avevo già visto all'opera questo regista in Mission Impossible III) . Piuttosto, ero attratto dal desiderio di vedere un film di fantascienza così osannato e pubblicizzato, e aver modo di poter condividere o smentire giudizi così entusiastici. Dopo i titoli di coda ( è d'obbligo non lasciare la sala in questa occasione per capire interamente la pellicola), già credevo di avere un'idea abbastanza chiara per cominciare una recensione del film.
Ebbene, se questo film ha qualcosa di ''classico'', sicuramente si tratta dell'impianto narrativo spilberghiano. Ora, dando per scontato che lo stile di Spielberg è assolutamente geniale e unico nel suo genere, bisogna stabilire se questa pesante influenza del regista di Indiana Jones, abbia inciso positivamente o meno sulla pellicola di Abrams. Risulta necessario a questo punto un breve riassunto della trama. La vicenda si svolge in una cittadina del West Virginia, nel 1979. Joe, figlio tredicennne del vice - sceriffo della cittadina, perde sua madre in seguito ad un incidente sul lavoro. Il ragazzo è un appassionato di trucco cinematografico, infatti sta partecipando alle riprese di un film amatoriale di genere horror per un concorso locale, insieme ad altri suoi amici coetanei, fra cui l'aspirante regista Charles e una ragazzina di nome Alice, ingaggiata dal gruppo di ragazzi come attrice protagonista della loro pellicola horror. Il film che i ragazzi stanno realizzando è girato con una pellicola 8 mm; da questo particolare proviene il titolo del film. Una sera, mentre i ragazzi stanno girando una scena vicino alla ferrovia, un treno viene deragliato dopo un surreale impatto con una automobile in cui si trova un insegnante dei ragazzi, che rimane misteriosamente in vita dopo l'impatto. Anche i membri della giovane ''troupe'' riescono a salvarsi in seguito al gigantesco disastro. Tutto l'incidente viene ripreso dalla cinepresa abbandonata dai ragazzi. Dopo l'incidente, comincia a circolare per le strade della città una creatura misteriosa, di origine extra-terrestre, il cui unico scopo è ricostruire la sua astronave per lasciare la Terra. 
L'opera di J.J. Abrams, a parer mio, può essere considerata complessivamente quasi discreta. Il film soffre della quasi assoluta mancanza di originalità a livello di sceneggiatura, in particolar modo nella seconda parte della pellicola. La venuta dell'extra-terrestre in una cittadina di provincia, la caccia spietata verso quest'ultimo da parte delle autorità, il contatto speciale con i bambini: tutto sembra rimandare fin troppo ai primi film di Spielberg, senza peraltro aggiungere molto alle analogie fin troppo evidenti. Bisogna dire che la prima parte del film sembra preludere ad eventi straordinari e sorprendenti; infatti, la prima metà del film è costruita quasi perfettamente, con una lunga ''attesa'' che permette di conoscere bene i personaggi prima dell'incidente che stravolgerà tutto. Purtroppo, dopo questo buon inizio, il film scade nella più assoluta banalità, nella tragicomica rivisitazione dei classici film sugli extra-terrestri, in cui tutto risulta ''già visto'', senza alcuna novità rispetto al passato, di cui riproduce gli schemi per rimediare alla totale mancanza di nuove idee rispetto ad un E.T. o Incontri ravvicinati del terzo tipo. Anche i temi del film risultano pressappoco identici ai film di Spielberg: l'esaltazione dell' età infantile; il rapporto padre-figlio; il passaggio all'età adolescenziale; l'incontro-scontro con il ''diverso'', l'estraneo. Temi già ampiamente trattati ed esplorati, se vengono ripresi, meritano almeno un diverso modo di essere presentati, piuttosto che una totale, identica riproposizione dello stile di chi li ha trattati precedentemente, cioè Spielberg in questo caso. Naturalmente ci sono anche delle note di merito per Super 8. Le interpretazioni dei giovanissimi attori, in particolare quella di Elle Fanning, sorella dell'altro prodigio Dakota, sono eccellenti. Inoltre, il tema della passione per il cinema, unico spunto originale, è presentato in maniera ottima: le varie scene in cui i ragazzi realizzano le riprese del loro film horror e la visione di questa stessa pellicola durante i titoli di coda sono assolutamente buone trovate. Inutile dirlo, ci sono ottimi effetti speciali.
Concludendo, a parer mio, non si può certo dire che il film di Abrams possa essere considerato un ''classico'' o un capolavoro che cambierà il cinema di fantascienza. Piuttosto, Super 8 si può sicuramente ritenere un discreto film di intrattenimento per ragazzi e per famiglie, pieno di molti stereotipi del genere, ma in compenso, con poche pretese.


di Andrea Raciti




VOTO: ** 1/2


Regia: J.J. Abrams
Sceneggiatura: J.J. Abrams
Produzione: Steven Spielberg, J.J. Abrams, Bryan Burk
Interpreti principali: Joel Courtney, Elle Fanning, Kyle Chandler, Noah Emmerich, Ron Dainard
Genere: Fantascienza
Anno: 2011











   

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Classifica dei 10 migliori film western della storia del cinema secondo ''THE FINAL CIAK!''



La Classifica:


1) Sfida infernale (1946) di John Ford
2) Il fiume rosso (1948) di Howard Hawks
3) Il mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah
4) Sentieri selvaggi (1956) di John Ford
5) Ombre Rosse (1939) di John Ford
6) Il buono, il brutto, il cattivo (1966) di Sergio Leone
7) Un dollaro d'onore (1959) di Howard Hawks
8) Il cavaliere della valle solitaria (1952) di George Stevens
9) C'era una volta il West (1968) di Sergio Leone
10) Quien Sabe? (1966) di Damiano Damiani


di Andrea Raciti

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Classifica dei 10 migliori film di fantascienza della storia del cinema secondo ''THE FINAL CIAK! ''




La Classifica:

1) 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick
2) Metropolis (1927) di Fritz Lang
3) Solaris (1972) di Andrej Tarkovskij
4) Blade Runner (1982) di Ridley Scott
5) Guerre Stellari (1977) di George Lucas
6) Arancia Meccanica (1971) di Stanley Kubrick
7) Matrix (1999) dei  Wachowski Brothers
8) A.I. (2001) di Steven Spielberg
9) Il pianeta delle scimmie (1968) di Franklin J. Shaffner
10) Inception  (2010) di Christopher Nolan


di Andrea Raciti

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The Tree Of Life: odissea nella vita dell'universo




Se nel caotico quanto fin troppo omogeneo, e di conseguenza ben poco originale,  panorama cinematografico americano odierno non fosse stata presente una personalità come Terrence Malick, che si colloca ai margini, se non totalmente al di fuori degli schemi hollywoodiani, sinceramente non avrei mai potuto credere che potesse essere concepita un' opera d'arte cinematografica di così alto spessore. Infatti, nonostante The tree of life possa risultare gradevole o no, non si può negare che questa pellicola sia un'opera d'arte totale sotto tutti i punti di vista. Difatti in questo film tutto è al servizio della forma, della bellezza delle immagini in ogni minimo particolare, e, di conseguenza il significato, il senso del film si trova nella forma stessa: è come se ogni inquadratura esprimesse ciò che il regista vuole dirci. Pertanto, il dialogo non può esprimere con la stessa forza delle immagini pure il messaggio che il regista Malick vuole trasmetterci. Inoltre ciò che rende opera d'arte The tree of life, è il fatto che tale film abbia diviso sia pubblico che critica: il film è un capolavoro assoluto o un esercizio di autocompiacimento del regista? Un'esperienza di straordinaria intensità o due ore e mezza di noia? E' proprio questa difficoltà nell'esprimere un giudizio definitivo e completo su questa pellicola, ma anche la molteplicità delle interpretazioni, che ci portano a definire opera d'arte il film. 
Era difficile aspettarsi qualcosa di meno da Terrence Malick: solo 5 film realizzati in 40 anni, di sua scelta non esposto ai media da 20 anni, ormai questo cineasta è considerato una figura anomala nel mondo del cinema, così come d'altronde anomale, ma soprattutto uniche nel loro genere, sono considerate le sue pellicole. Ma, The tree of life rappresenta sicuramente un cambio di rotta radicale del regista nella sua concezione della realtà, della vita dell'uomo, di Dio e del cinema stesso. Nei suoi due film precedenti, cioè La sottile linea rossa (1998) e The New World (2005) , il percorso interiore dei personaggi (quindi dell'autore) approdava ad una sorta di concezione panteista e ad una aspirazione ad un ritorno ad un'esistenza primitiva, lontana dalla civiltà moderna e completamente a contatto con la natura.
The tree of life invece, come già abbiamo sottolineato, segna una netta svolta in quella che si potrebbe a ragione definire la poetica di Malick.
Per quanto riguarda la struttura narrativa del film, possiamo certamente affermare che sia costruita su una serie di contrasti: il padre e la madre, la Natura e la Grazia, il Bene e il Male, il  passato ed il presente, l'Uomo e Dio. L'impresa del regista è a dir poco titanica e audace, pochi cineasti  avevano tentato una simile operazione in cui si rischia di ricevere una sonora batosta sia dal pubblico sia dalla critica moderna. La soluzione del regista è geniale. Egli  narra la vicenda particolare di un uomo di mezza età, Jack O'Brien (Sean Penn), che sente di aver perso la fiducia nell'Umanità  e anche la propria fede in Dio, e che cerca di ritrovare le ragioni di ciò ricordando la sua infanzia, il contrasto fra la figura della madre amorevole e del padre severo, la sofferenza dei suoi genitori per la morte di suo fratello a soli 19 anni. Parallelarmente alla vicenda familiare, in seguito soprattutto alla morte del fratello di Jack, nascono le domande della madre e di Jack stesso sul senso della vita e sul perchè Dio consenta che l'Umanità debba provare tali sofferenze, come la perdita di un figlio. Questi interrogativi portano al secondo livello del film, che potremmo definire filosofico-teologico: si tratta di sequenze che mostrano l'origine della vita dell'universo e di ogni suo elemento, dai corpi celesti fino ai più piccoli microrganismi. Il film cerca quindi di narrare l'armonia fra il macrocosmo, rappresentato dall'universo, e il microcosmo, cioè l'uomo, ma non solo: cerca di trovare, attraverso un percorso interiore che porta nelle profondità dell'anima umana, la completa felicità nell'accettazione che ogni evento fa parte dell' ''albero della vita'', in cui ogni cosa è posta da Dio in perfetto accordo con il resto dell'universo. Questa conclusione è rafforzata dal fatto che il film stesso si apre con dei versetti della Bibbia presi dal libro di Giobbe: '' Dov'eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra? (...) Mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?''. Per quanto possa essere più o meno condivisibile da ciascuno, la tesi di Malick è chiara: questo universo, creato da Dio, è il migliore dei mondi possbili, e pertanto, anche la morte non è un male, ma solo un  evento provvidenziale, stabilito da Dio, e parte integrante del ciclo della vita. Fondamentale anche la rappresentazione del contrasto fra il padre e la madre di Jack, figure rispettivamente corrispondenti a Natura e Grazia: l'una impetuosa e dominatrice, come il padre, l'altra generosa e amorevole, come la madre. D'altronde, come Jack stesso capirà alla fine, le due cose fanno parte della sua personalità, quindi l'unica soluzione resta trovare un'armonia fra di esse, fra la personalità del padre e  quella della madre, fra la Natura e la Grazia.
Pertanto, fondamentalmente si tratta di un film sull'armonia del cosmo, pervaso da un profondo ottimismo metafisico, se vogliamo, anche cristiano in certe conclusioni. Ma, a parer mio, il film può anche essere considerato il naturale successore di altri capolavori del passato, a cui il regista fa chiaramente riferimento nelle due lunghe scene chiave del film . Nella stupenda scena che potremmo definire cosmologica (a parer mio la scena più bella del film), divisa in due parti, vengono rappresentati vari corpi celesti del cosmo come in 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick; viene utilizzata la panoramica per riprendere i pianeti, come in 2001. Ma le somiglianze con il capolavoro di Kubrick si fermano al livello della forma, mentre a livello contenutistico le conclusioni di Malick sono più chiare e ottimiste di quelle kubrickiane, di contro, gnostiche e ambigue, che tendono a lasciare molti enigmi irrisolti.
The tree of life presenta anche somiglianze con due capolavori di un altro autore immortale: Amarcord e 81/2 di Federico Fellini. A livello narrativo, il film infatti si presenta come un lungo viaggio del protagonista nei suoi ricordi d'infanzia, in cui si assiste alla normale vita quotidiana della famiglia di Jack: scene di gioco tra i fratelli, i momenti dei pasti in famiglia, le relazioni fra i genitori e i figli, fra marito e moglie e tra fratelli. Quindi, le modalità narrative fanno notare immediatamente allo spettatore attento le analogie con Amarcord. Il riferimento ad 81/2 invece, risulta evidente nella scena finale del film, in cui tutti i personaggi della storia si ritrovano in un spiaggia situata fuori dal tempo mentre si tengono per mano: forse, si tratta di un luogo che si trova solamente nella mente del protagonista, una fantasia idilliaca che sta ad indicare la piena riconciliazione con la vita, esattamente come la scena finale del capolavoro del ''Maestro''. 
The tree of life ha conquistato la Palma d'oro al 64° Festival di Cannes, un riconoscimento assolutamente meritato, nonostante il film sia stato criticato in maniera brutale da alcuni critici, i quali , a mio parere, sono stati zittiti da Brad Pitt, protagonista e co-produttore del film, che ha difeso a spada tratta la pellicola e il regista, definendo quest'ultimo ''Il poeta Terrence Malick''.


di Andrea Raciti

VOTO: ***** 

Regia: Terrence Malick
Sceneggiatura: Terrence Malick
Produzione: Dede Gardner, Sarah Green, Brad Pitt
Interpreti principali: Sean Penn, Brad Pitt, Jessica Chastain
Premi: Palma d'Oro al 64° Festival di Cannes
Genere: Drammatico, Fantasy
Anno: 2011





          





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