Classifica dei 10 migliori film del 2012 secondo ''THE FINAL CIAK!''




1) Cesare Deve Morire *****

Regia: Paolo e Vittorio Taviani
Sceneggiatura: ''    '' Taviani
Interpreti: Giovanni Arcuri,Cosimo
Rega, Salvatore Striano
Genere: Docu-Fiction
Premi: Orso d'Oro Festival di
Berlino




 




2) Hugo Cabret  *****

Regia: Martin Scorsese
Sceneggiatura: John Logan
Interpreti: Asa Butterfield, Ben Kingsley
Genere: Avventura
Premi: 5 Academy Awards



3) Romanzo di una Strage *****

Regia: Marco Tullio Giordana
Sceneggiatura: M. T. Giordana
Interpreti: Pierfrancesco Favino,
Valerio Mastrandrea
Genere: Storico, Drammatico
Premi: 3 David di Donatello




4) E' stato il figlio ****

Regia: Daniele Ciprì
Sceneggiatura: Daniele Ciprì
Interpreti: Toni Servillo, Giselda
Volodi
Genere: Grottesco






5) Lo Hobbit ****

Regia: Peter Jackson
Sceneggiatura: P.Jackson,
Guillermo del Toro
Interpreti: Martin Freeman,
Ian McKellen
Genere: Fantasy





6) Millennium ****

Regia: David Fincher
Sceneggiatura: David Zaillian
Interpreti: Daniel Craig,Roneey
Mara
Genere: Thriller
Premi: 1 Academy Awards





7) Il Cavaliere Oscuro- Il Ritorno **** 


Regia: Christopher Nolan
Sceneggiatura: C. Nolan
Interpreti: Christian Bale,
Michael Caine
Genere: Avventura




8) ACAB ****

Regia: Stefano Sollima
Sceneggiatura: Barbara Petronio
Interpreti: P. Favino, Filippo Nigro,
Andrea Sartoretti
Genere: Drammatico








9) J. Edgar ***1/2

Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: D.L. Black
Interpreti: Leonardo DiCaprio,
Naomi Watts
Genere: Biografico







10) Io e Te ***1/2

Regia: Berardo Bertolucci
Sceneggiatura: B. Bertolucci,
Niccolò Ammanti
Interpreti: Jacopo Olmo Antinori,
Tea Falco
Genere: Drammatico




di Andrea Raciti


  • Digg
  • Del.icio.us
  • StumbleUpon
  • Reddit
  • RSS

Classifica dei 10 migliori film di spionaggio della storia del cinema secondo ''THE FINAL CIAK!''


























La Classifica:

1) Notorious- L'Amante Perduta (1946) di Alfred Hitchcock
2) Intrigo Internazionale (1959) di A. Hitchcock   
3) Agente 007- Licenza di Uccidere (1962) di Terrence Young
4) Syriana (2006) di Stephen Gaghan
5) Lo Straniero (1946) di Orson Wells
6) Mission Impossible (1996) di Brian De Palma
7) Casino Royale (2006) di Martin Campbell
8) The Bourne Identity (2002) di Doug Liman
9) Il Sarto di Panama (2001) di John Boorman
10) Caccia a Ottobre Rosso (1990) di John McTiernan

di Andrea Raciti






  • Digg
  • Del.icio.us
  • StumbleUpon
  • Reddit
  • RSS

L'Udienza: ossia il lato kafkiano della Chiesa






Tra i recenti prodotti del cinema italiano balzati agli onori della cronaca, vi è l’ultima fatica di Nanni Moretti, Habemus Papam. Vuoi la notorietà di cui il Nanni gode da tempo presso i circoli intellettualistici dei critici cinematografici, vuoi perché il suddetto regista, nel bene o nel male, resta uno dei pochi a scostarsi dal modello “vacanzieri deficienti – coppie scoppiate – adolescenti in tempesta ormonale” che ormai domina in sala (a parte le rare eccezioni di un Sorrentino, un Tornatore, un Salvatores, per fare qualche esempio, o i recenti A.C.A.B e Diaz) e ad esprimere un tipo di cinema tutto suo, il film ha ottenuto il riscontro positivo della critica, italiana e internazionale. Con buona pace della cricca di radical-chic e pseudo-intellettuali che ammorbano le pagine della critica cinematografica, Habemus Papam è stato ritenuto un film di grande impatto, con profonde spinte etiche (?), una delicata analisi dell’animo umano e un ottimo sguardo sul potere della Chiesa.
Peccato che l’unico film italiano che si sia soffermato sul potere ecclesiastico e sulla sua forte ritrosia a passare dalla parte dell’homo homini homo, risalga al 1972. Si tratta de L’udienza di Marco Ferreri.
Il titolo di Maestro si addice perfettamente alla persona di Ferreri, autore di nicchia del panorama italiano e creatore di un cinema “anarchico”, surreale, che trae ispirazione da quel Luis Bunuel, che tanto egli dichiarò di ammirare, producendo opere come La grande abbuffata, Ciao maschio, Dillinger è morto, L’ape regina e La donna scimmia, caratterizzate da un profondo cinismo, una serrata critica ai dogmi e  alla società borghese e consumista (filtrata anche dall’influenza, in parte, di Pier Paolo Pasolini) e da una narrazione surreale e mai banale.
L’udienza è la storia di Amedeo (interpretato da Enzo Jannacci, in una delle sue apparizioni cinematografiche), un giovane settentrionale venuto in Vaticano, perché vuole a tutti i costi parlare col Papa. Non si sa di cosa, né tanto meno egli lo rivelerà nel corso del film: sta di fatto, che vuole incontrare il Santo Padre a quattr’occhi e, a differenza di tanti altri turisti e curiosi che si limitano ad un laconico “sì, Santità” o “no, Santità”, discutere con lui. La cosa turba tanto i prelati dell’entourage del Papa, quanto le autorità del Vaticano, in primis il commissario Aureliano Diaz (Ugo Tognazzi), che, non riuscendo ad incriminarlo di nulla, è costretto a lasciarlo libero, ma tenta in ogni modo di tenerlo lontano da un probabile incontro col Papa, ricorrendo ora a minacce, ora all’aiuto di una giovane prostituta (Claudia Cardinale), che lo seduca, convincendolo a desistere. Amedeo però non demorde e si rivolge prima all’eccentrico Principe Donati (Vittorio Gassman), poi all’ambiguo Padre Amerin (Michel Piccoli) e ad una congrega di teologi belgi. Tenta addirittura di forzare la resistenza delle guardie svizzere in Piazza San Pietro. Tra ulteriori tentativi e le manovre delle “eminenze grigie” per allontanarlo, si arriva al surreale e tragico finale.
Prendere di mira il mondo delle istituzioni ecclesiastiche e la religione è un’operazione fin troppo facile. Lo dimostrano tanto la pseudo-satira libertaria, tanto la fiammata di “odio” disperato e ribelle di chi oggi si proclama ateo o anticlericale per moda o per partito preso (quando magari non sa nemmeno darne una spiegazione coerente). Solitamente basta prendere un prete grasso o dalla sessualità repressa e il gioco è fatto. Ferreri, che nel suo cinema non provoca mai a vuoto, sa bene di toccare un punto delicato e di dover andare oltre la semplice satira più o meno graffiante, e mostra allora una vicenda strappata a qualunque briciolo di umanità, “cattiva”, beffarda, oscura fino alla fine. Gli elementi per mettere su una storia efficace non gli mancano. Nel 1972, vige il pontificato di Paolo VI, quel papa che, nel raccogliere l’eredità di Giovanni XXIII, a cominciare dal Concilio Vaticano II (discutere dell’efficacia o meno del quale, tanto da credenti, quanto da non credenti, è qui inopportuno), si mostrò molto più di transizione che il suo predecessore. ’72 significa, indirettamente, ’68, e prima ancora, la primavera ideologica degli anni ‘60 che finì col condizionare, tra vittorie e fallimenti, buona parte della mentalità italiana dell’epoca successiva al secondo dopoguerra. E questo finisce col coinvolgere anche il campo religioso. Il breve pontificato di Giovanni XXIII (morto nel 1963) fu segnato da una profonda apertura nei confronti del suo tempo. Pur nel tradizionale conservatorismo delle istituzioni ecclesiastiche, diede inizio ad una campagna di rinnovamento all’interno della Chiesa, tentando di svecchiarla dai molti formalismi che fino ad allora l’avevano contrassegnata, rendendola così distante dall’uomo (operazione che, nella storia recente, è stata ripetuta sotto altre forme solo da Giovanni Paolo II) In poche parole, il suo pontificato fu attraversato da una lieve ventata di “modernismo”, che Paolo VI tentò di riprendere, riscontrando però la chiusura degli ambienti vaticani. È questo il tema che finisce col dominare il film di Ferreri: il suo occhio si sofferma sulla struttura secolare, di potentato, di un’istituzione idealmente vicina al cuore dell’uomo eppure chiusa a riccio su se stessa, incapace di aprirsi realmente alla miseria altrui, alla cura degli altri, all’ascolto nei confronti dei fedeli, dominata dalla burocrazia e dal timore di perdere un potere che rimane fine a se stesso: in poche parole, una Chiesa “politica”. Ne emerge il quadro impietoso di una Mater che non è accogliente o pia, ma fredda e distante, adornata d’oro, profumata d’incenso e arricchita di parole echeggianti di vana spiritualità, quello che, riflettendo sulle parole evangeliche, risulta essere un “sepolcro imbiancato”. Molto simbolicamente, con un tocco di pura genialità, allora, la macchina da presa si sposta su un personaggio anonimo, nella storia. Siamo a metà film. A seguito di un suo ennesimo, disperato assalto, Amedeo è stato forzatamente rinchiuso in un convento-prigione, insieme ad altri “pericolosi libertari” (uno di essi, tanto per fare un esempio, è un monaco sostenitore della tanto discussa “teologia della liberazione”). Qui, incontra un vecchietto, tale Giovanni Rossi. Qual è l’eccezionalità in tutto ciò? La sua somiglianza, tanto fisica, quanto comportamentale, col defunto Giovanni XXIII. Fino alla sua ultima apparizione, il personaggio mostra nei confronti di Amedeo quell’umiltà, quella gentilezza, quello spirito di fratellanza che gli è stato negato di ricevere tra le mura del Vaticano. E cosa più importante, uno spirito paterno, lo stesso che Amedeo sembra ossessivamente ricercare sin dall’inizio: si potrebbe quasi dire che egli veda nella figura del Papa un vero padre e che voglia incontrarlo, spinto dalla voglia di abbracciare una figura vicina, calda, pronta a tendere la mano, a mostrarsi degna del titolo tanto di vicario di Cristo, quanto di “Santo Padre”. In ciò, Amedeo sarebbe il simbolo di un’umanità misera, abbandonata a se stessa dal potere e che, disperata, va alla ricerca di padri che permettano loro di risollevarsi e indichino loro la via. Che la scelta sia la Chiesa, rende il tutto ancora più significativo, in quanto essa, più d’ogni altra organizzazione umana, dovrebbe condurre alla liberazione dell’uomo dalle catene della schiavitù e dell’ingiustizia terrena, elevandolo al Padre per eccellenza, ossia Dio. Ferreri (anticlericale, ma non ateo fino in fondo) si rende conto di come invece un profondo nichilismo, l’assenza di vera spiritualità e l’oscura fascinazione del potere dominino le alte sfere degli ambienti ecclesiastici, soffermandosi sull’aspetto più inquietante della macchina del potere, ossia la burocrazia: Amedeo è, infatti, sballottato da un ufficio all’altro in un’insensata, interminabile spirale di intricati giochi di potere: l’unico a commuoversi per lui è un teologo belga, interpretato da Alain Cuny, cui il protagonista sussurra il motivo dell’udienza.. Nasce così una sceneggiatura che spazia da Kafka a Bunuel, in una curiosa e riuscitissima unione tra opere come Il castello e Il processo (per molti versi, la scena finale ricorda il racconto Alle porte della legge) e L’angelo sterminatore, in un’atmosfera surreale, graffiante, se vogliamo sconvolgente: da una curiosa lavanda dei piedi della Cardinale allo stravagante nobile Gassman, all’esame nella gendarmeria del Vaticano, fino alla scena finale, una cinica ringkomposition che non chiude la storia, ma la riapre, e chissà, forse con esiti ancora più tragici. Lo sguardo allucinato del regista si muove attraverso le aure ovattate di chiese, conventi, portici, di palazzi dimora di potenti che affidano il loro successo alla vicinanza con la Chiesa, la dolciastra atmosfera dell’appartamento in cui la Cardinale tenta di distrarre Amedeo, offrendosi a lui anima e corpo (ma soprattutto corpo), e tra le architetture imponenti di Piazza San Pietro. Ogni cosa sembra chiudersi su se stessa e soffocare tanto il protagonista, quanto lo spettatore, facendo emergere, attraverso le immagini, una maschera di spietato cinismo frammisto ad istanti di sincera commozione e partecipazione alle sventure umane. Il tutto senza mai annoiare, in un clima che si muove tra momenti volutamente comici e ammiccanti, altri drammatici e ricchi di amarezza. Il ricchissimo cast non viene meno alle promesse, si dimostra affiatato e calza a pennello ogni ruolo.


di Pippo Di Mauro


VOTO: ****

Regia: Marco Ferreri
Sceneggiatura: Marco Ferreri
Interpreti principali: Enzo Jannacci, Ugo Tognazzi, Claudia Cardinale, Vittorio Gassman, Michel Piccoli, Alain Cuny
Genere: drammatico
Anno: 1972

  • Digg
  • Del.icio.us
  • StumbleUpon
  • Reddit
  • RSS

Classifica dei 10 migliori Thriller di sempre secondo ''THE FINAL CIAK!''






La Classifica:

1) La Finestra sul Cortile (1954) di Alfred Hitchcock
2) Rapina a Mano Armata (1956) di Stanley Kubrick
3) Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri
4) Non è un Paese per Vecchi (2007) di Joel e Ehan Coen
5) L'Infernale Quinlan (1959) di Orson Welles
6) Frenzy (1972) di Alfred Hitchcock
7) The Departed (2006) di Martin Scorsese
8) M- Il Mostro di Dusseldorf (1931) di Fritz Lang
9) Mulholland Drive (2001) di David Lynch
10) Seven (1995) di David Fincher


di Andrea Raciti

  • Digg
  • Del.icio.us
  • StumbleUpon
  • Reddit
  • RSS

Cesare Deve Morire: arte e redenzione



Quando si parla di sperimentalismo, non necessariamente bisogna pensare ad una sorta di salto a occhi chiusi nel vuoto, ad un viaggio verso ''territori'' inesplorati in qualunque ambito artistico, anzi molte volte con questo termine possiamo riferirci alla fusione e la conseguente ripresa di stili, modi di rappresentazione più o meno illustri del passato, tesi però verso nuovi obiettivi. Con questo Cesare Deve Morire, i fratelli Taviani ( Padre Padrone, Kaos, Tu ridi) sembrano seguire proprio questa forma di sperimentalismo. 
Il film infatti è stato definito un docu-film, poichè riprende le prove e la messa in scena del Giulio Cesare di W. Shakespeare, di un gruppo di attori se vogliamo non convenzionale: infatti, gli interpreti di questo dramma storico sono i carcerati reclusi nel settore di massima sicurezza di Rebibbia, diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli. Tutti gli attori-carcerati sono condannati a pene che ammontano a diversi anni di carcere o all'ergastolo stesso, avendo compiuto gravissimi reati, fra i più disparati. Veniamo a sapere durante i provini degli stessi carcerati per entrare a far parte del cast, le loro generalità, il reato commesso e il tipo di pena da scontare. Un realismo estremo contraddistingue le prime sequenze del film: veniamo infatti direttamente a conoscenza delle informazioni basilari riguardo a dei pluriomicidi, spacciatori, mafiosi. Già dai provini risulta assolutamente evidente dai volti, dalle parole e dai gesti di questi individui, il loro stato di emarginazione, abbrutimento, disperazione. Ma queste sequenze danno corpo semplicemente all'incipit, il film infatti non ha come scopo principale quello di documentare una condizione umana ormai degradata. Il film documenta una presa di coscienza, un rinnovamento morale di un gruppo di carcerati, semplicemente riprendendo le prove di ogni scena del dramma, il costante studio delle battute soprattutto da parte degli attori protagonisti, gli interpreti di Bruto, Cesare e Cassio, fino ad arrivare alle scene finali in teatro della battaglia di Filippi e del suicidio dei due cesaricidi. Non è un Giulio Cesare convenzionale quello interpretato dai carcerati di Rebibbia: infatti, ogni attore recita le battute nel proprio dialetto di origine, chi in napoletano, chi in romanesco, con brevi passaggi in italiano. L'influenza del neorealismo italiano è evidente da questi primi particolari: a recitare non sono attori professionisti, ma gente ''della strada'', carcerati in questo caso. Non meno palese è il retaggio di Pasolini, per cui gli attori ,presi dalla strada, parlano il loro dialetto, per esprimere in modo autentico, immediato, vero, pur mantenendosi nella finzione, le passioni che emergono dalle loro parole, come nei film del regista-scrittore romagnolo. Man mano che si va avanti con le prove delle scene, una convinzione sempre più forte comincia a insinuarsi fra gli attori-carcerati, ciò che essi stanno facendo e dicendo solo per finta, non li ha semplicemente aiutati ad uscire da una condizione da reclusi, emarginati: questi individui sono entrati in una dimensione fino ad allora a  loro sconosciuta, l'arte. I carcerati così, scoprono la libertà espressiva di cui l'arte è garante; cominciano a rendersi conto che quelle stesse passioni di cui quei personaggi furono portatori restano immortali grazie alla rappresentazione teatrale, grazie al loro sforzo in questo caso, di far rivivere quelle passioni. In definitiva, la scoperta dell'arte provoca nei carcerati la presa di coscienza di una superiore forma di libertà; cosicchè si ha la sensazione che ogni scena del dramma shakespeariano recitata dal gruppo di carcerati arrivi ad assumere un'aura epica, solenne: ogni dialogo fra i congiurati, ogni monologo, rappresenta nella finzione del dramma quanto per gli stessi carcerati, un passo avanti verso una sorta di ''avvaloramento'', ma soprattutto di pura redenzione morale. Quale tragedia avrebbe potuto esprimere meglio questi sentimenti, se non il dramma per antonomasia sulla lotta titanica contro il tiranno per la conquista della libertà, il Giulio Cesare? E' cosi che in questo film, grazie a questo particolare esperimento (neo)realista di teatro nel cinema, emerge dalla finzione scenica la pura verità sulla natura ancora profondamente e disperatamente umana di questi carcerati, che arrivano a identificarsi e immedesimarsi più che nella mente, nell'anima stessa dei loro personaggi, di Cesare, di Bruto, di Cassio, di Antonio. Ecco che nel film sorge spontanea la riflessione sul significato della recitazione, dell'interpretazione: non si tratta della semplice identificazione con una maschera fittizia, ma essa è tale se viene a crearsi l'amore vero e proprio per un personaggio, una condivisione di passioni e ideali. Il carcerato che interpreta Cesare, arriva a considerare il suo personaggio ''un genio'', l'interprete di Bruto prova con impegno maniacale le sue battute tanto è rimasto sedotto dalla tragica vicenda del cesaricida, in cui sembra quasi rivivere fatti di sangue di cui lui stesso fu testimone o protagonista. L'esperienza artistica-teatrale cambia radicalmente questi uomini, ma dopo la fine della rappresentazione teatrale, gli ''attori di Rebibbia'' tornano nelle loro celle, carichi di una nuova, tragica consapevolezza. Infatti, l'interprete di Cassio, rinchiuso nella sua cella, dopo qualche secondo di silenzio amaramente afferma:'' Da quando ho conosciuto l'arte, questa cella è diventata una prigione''. La libertà interiore raggiunta grazie all'arte, ha reso pienamente consapevoli i carcerati della loro condizione, in cui sembra ormai impossibile esprimere se stessi a causa della reclusione. Questi uomini si rendono conto dell'altra faccia dell'arte, la sua natura illusoria, fittizia, appunto perchè libera creazione, ma che per qualunque uomo, e più che mai per condannati all'ergastolo o ad anni di prigione, può diventare più reale e straordinaria della vita stessa.
Tutto ciò viene espresso stilisticamente da uno splendido bianco e nero per tutte le scene del film ambientate nel carcere, che esprime perfettamente il senso di prigionia, aridità, inquietudine, e che nei moltissimi primi piani e nei campi lunghi delle scene di gruppo, come la riunione per il giuramento dei congiurati e dell'assassinio di Cesare, dona anche l'atmosfera di tragicità e maestosità per un Giulio Cesare girato direttamente in carcere per giunta.
Questa pellicola pertanto, raggiunge per questi motivi un livello di eccellenza tale che ha pochissimi paragoni nel cinema italiano di questi ultimi anni, poichè la potenza visiva e comunicativa del film grazie alla sintesi di vita e arte, di verità e finzione, di Shakespeare e cinema, ha dato vita ad un'opera unica nel suo genere. Cesare deve morire è stato il film italiano scelto per partecipare agli Academy Awards del 2013 fra le pellicole che concorrono per aggiudicarsi l'Oscar al miglior film straniero. Il cinema italiano rappresentato dai precedenti Gomorra scelto nel 2009 e Terraferma nel 2012, non ebbe attribuita la statuetta, nonostante l'indiscutibile qualità superiore di queste pellicole, ma forse, il film dei Taviani riuscirà finalmente a ridare un po' di lustro ufficiale al nostro martoriato cinema, dopo l'ultimo Oscar a La Vita è Bella di Benigni nel '99.

di Andrea Raciti


VOTO: *****

Regia: Paolo e Vittorio Taviani
Sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, Fabio Cavalli
Produzione: Kaos Cinematografica, Rai Cinema
Interpreti principali: Giovanni Arcuri, Cosimo Rega, Salvatore Striano
Genere: docu-film, drammatico
Premi: Orso D'Oro al Festival di Berlino, 5 David di Donatello
Anno: 2012

  • Digg
  • Del.icio.us
  • StumbleUpon
  • Reddit
  • RSS

Classifica dei 10 migliori autori di colonne sonore della storia del cinema secondo ''THE FINAL CIAK!''





















In questa specifica classifica verrà aggiunto,tra parentesi accanto al nome del compositore, il nome del film per cui ogni autore ha realizzato la sua colonna sonora più celebre.

La Classifica:

1) Nino Rota (Il Padrino)- Ennio Morricone (Nuovo Cinema Paradiso)
2) John Williams (Star Wars)
3) Bernard Hermann (Psyco)
4) Hans Zimmer (Il Gladiatore)
5) Elmer Bernstein (I Magnifici Sette)
6) Nicola Piovani (La Vita è Bella)
7) I Goblin (Profondo Rosso)
8) Sergej Prokof'ev (Ivan il Terribile)
9) Philip Glass (The Truman Show)
10) Giorgio Moroder (Scarface

di Andrea Raciti



  • Digg
  • Del.icio.us
  • StumbleUpon
  • Reddit
  • RSS

To Rome with Love: elogio della demenza targato Allen







Per l'affermazione che sto per fare forse non sarò considerato un ''purista'' di Woody Allen, ma devo ammettere che gli ultimi lavori del regista newyorkese, da Match Point a Basta che funzioni, fino al recentissimo Midnight in Paris, possono essere ritenuti dei piccoli gioielli, opere d'arte alla maniera di Allen, anche se non intrise della vena geniale dei tempi d'oro del vecchio ''umorista''. I temi della colpa impunita, dell'assenza di una morale nel mondo, dell'ambizione nella scalata sociale, il problema del dualismo Caso/Necessità, e altre tematiche fondamentali care ad Allen sono trattate con il solito stile inconfondibile, con leggerezza, brio e soprattutto grande intelligenza e sensibilità. L'amata musica jazz, Cole Porter in Midnight in Paris, ma anche la musica classica, Verdi e Rossini in Match Point, erano più di un semplice accompagnamento mentre si susseguivano le inquadrature dei luoghi celebri delle capitali europee celebrate da Allen, da Londra a Parigi a Barcellona (che non sarà la capitale ma è un simbolo più che celeberrimo della Spagna moderna). Beh, scordatevi tutto ciò (o quasi) per To Rome with Love. La bulimia creativa di Allen lo ha fatto approdare in Italia, con l'intenzione ,per cosi dire, ''ufficiale'' di celebrare il nostro Paese e, in particolare, Roma. Woody si ispira vagamente alle novelle del Decameron di Boccaccio per questo film a episodi, quattro storie, palesemente ispirate alla commedia sexy italiana degli anni '70, come il famoso Sessomatto (1973) di Dino Risi. Woody sfrutta la straordinaria location con il solito talento, rendendo anche i monumenti, le strade, gli edifici dell'Urbe quasi dei personaggi come gli altri. Fino a questo punto, niente di nuovo sotto il sole, sappiamo che Woody è stato capace di rendere questa atmosfera anche a Parigi, a Londra e soprattutto a New York. Ma la tragedia che si profila è già annunciata nei primi minuti del film: parte una Nel blu dipinto di blu che andando avanti nella visione si scoprirà più inadeguata che mai, e un vigile introduce le storie che si stanno per svolgere: quattro episodi, uno più sgangherato e banale dell'altro, pieni di stereotipi. Giunto in Italia, a pochi mesi dalla realizzazione di un ottimo film come Midnight in Paris, Allen porta sullo schermo delle storielle frutto di frettolosità nella sceneggiatura, scarso sviluppo dei temi e grossolanità. L'intelligenza e la profondità di cui si parlava prima, vengono qui mandate letteralmente al diavolo, accantonate dal regista, a favore di una comicità di bassa caratura, di una svogliatezza ancora non dimostrata da Allen neanche nelle sue peggiori pellicole del passato. L'episodio con Penelope Cruz è l'emblema dell'assoluto disinteresse di Allen nel dare un senso, non necessariamente logico, ma un qualunque significato, anche estetico se vogliamo come in Manhattan, a questo delirio di comicità scadente, più consona al nostrano ''cinepanettone'' dei Vanzina che a Woody Allen. Il masochismo del newyorkese è tale che opta per gli attori italiani se vogliamo più di moda, ma forse anche più incompetenti del momento: Alessandra Mastronardi (la Eva de I Cesaroni per intenderci...) nel ruolo di una novella sposa apparentemente pudica e santarellina ma attratta dalle star del cinema; Riccardo Scamarcio nel ruolo di un ladro che seduce la Mastronardi; Alessandro Tiberi, nel ruolo del giovane marito della Mastronardi, un borghesuccio schivo, fedelissimo alla moglie,moralmente intransigente, conformista, inibito sessualmente, ma cederà in poco tempo alle grazie della prostituta interpretata da Penelope Cruz, che qui tocca il fondo della sua carriera di attrice. Per gli Italiani si può fare eccezione per gli ottimi Benigni e Albanese, anche se purtroppo è doveroso asserire che, a prescindere dalla pur buona interpretazione, il primo è totalmente fuori contesto, protagonista di un episodio che parte bene ma sfocia nella ripetitività e nella banalità, l'altro invece interpreta un ruolo veramente infelice, una sorta di attore''mandrillo'' che, come non detto, tenta di sedurre la Mastronardi. L'episodio in cui Woody Allen recita nel ruolo di un produttore discografico ormai in pensione che scopre il talento da cantante lirico nel consuocero cercando di farlo sfondare nel mondo dell'opera, è un elogio alla mediocrità e alla mancanza di idee; l'episodio in questione viene reso godibile soltanto dalle solite battute alleniane ('' Se sei in contatto con Freud, fatti ridare i miei soldi!''). Solo nell'episodio con Alec Baldwin e Jesse Eisenberg sembra esserci un pur minimo tentativo del regista di ricordare a tutti che, fra i motivetti ridicoli della colonna sonora e il susseguirsi di vicende di rara potenza demenziale, è proprio Woody Allen a dirigere tutta la baracca: in questa vicenda un giovane architetto americano è fortemente attratto da una strana radical chic molto frivola con cui ha una relazione tradendo la fidanzata. Tutti i personaggi però sono continuamente alle prese con una sorta di inconscio collettivo rappresentato da un anziano architetto, che li consiglia e discute con loro. Forse Allen ha definitivamente abbandonato le teorie freudiane a favore di quelle jungiane? Probabile, ma tornando al film, l'episodio resta comunque un abbozzo, un esercizio di stile, parzialmente riuscito nel complesso.
Purtroppo, per quanto ci si possa sforzare di interpretare questa pellicola come satira dei corrotti costumi della borghesia italiana, critica a certo cinema nostrano e ai mass- media ed elogio ( che si ferma al piano puramente estetico) della città di Roma, purtroppo la sceneggiatura sgangherata da cui scaturiscono storielle di scarso spessore e povere di contenuti, non può che decretare il fallimento di Allen, la cui grande forza espressiva trova quasi sempre in una solida e ben congegnata sceneggiatura la sua migliore manifestazione.
Purtroppo e per fortuna, Allen realizza mediamente un film all'anno ininterrottamente dal 1966, ha recentemente dichiarato che lo ritiene il miglior sistema per esorcizzare il pensiero della morte, per lui, ormai quasi ottantenne, l'arte cinematografica è taumaturgica, e il suo pubblico, soprattutto europeo, ha la certezza che annualmente Allen sfornerà un' altra pellicola. Ma, naturalmente, con questi ritmi di produzione filmica che accorciano drasticamente la distanza fra una pellicola e l'altra, è perfettamente comprensibile che ci scappi qualcosa di superfluo. Dispiace, naturalmente, che Allen abbia toppato proprio in occasione del film italiano, da cui si evince che il newyorkese consideri il nostro Paese come una sorta di circo di vecchi stereotipi senza vita (certo, l'immagine dell'Italia nel mondo dà adito a queste teorie...), nonostante la profonda ammirazione di Allen per i grandi registi come Fellini, per la nostra musica e per la nostra arte, quindi in generale, giustamente, per il nostro illustre passato.
Si consiglia ad Allen una vacanza di almeno 2-3 anni, affinchè ritorni presto con un film che lo aiuti veramente ad allontanare lo spettro della morte, che Allen sembra addirittura invitare a casa sua più che cercare di tenerlo lontano realizzando film come To Rome with Love.

di Andrea Raciti


VOTO: **


Regia: Woody Allen
Sceneggiatura: Woody Allen
Produzione: Letty Aronson
Interpreti principali: Woody Allen, Roberto Benigni, Alec Baldwin, Jesse Eisenberg, Penelope Cruz, Alessandra Mastronardi, Alessandro Tiberi.
Genere: Commedia
Anno: 2012


  • Digg
  • Del.icio.us
  • StumbleUpon
  • Reddit
  • RSS

Classifica dei 10 migliori attori americani di sempre secondo ''THE FINAL CIAK!''




































Nella seguente classifica verrà indicato fra parentesi, accanto al nome,il ruolo migliore interpretato da ciascun attore.


La Classifica:




1) Marlon Brando (Vito Corleone ne ''Il Padrino'')- Robert de Niro (Jake La Motta in ''Toro Scatenato'')
2) Jack Nicholson (Jack Torrance in ''Shining'')
3) Al Pacino (Tony Montana in ''Scarface'')
4) Burt Lancaster (Fabrizio Salina ne '' Il Gattopardo'')
5) John Wayne (Ethan Edwards in ''Sentieri Selavaggi'')
6) Cary Grant (Roger Thornill in ''Intrigo Internazionale'') 

7) James Stewart (John Ferguson in ''La Donna che Visse Due Volte'')
8) Clint Eastwood (Frankie Dunn in ''Million Dollar Baby'')
9) Leonardo Di Caprio (Billy Costigan in ''The Departed'')
10) Tom Hanks (Forrest Gump in ''Forrest Gump'')






di Andrea Raciti

  • Digg
  • Del.icio.us
  • StumbleUpon
  • Reddit
  • RSS

''LA TRAGEDIA DI UN UOMO RIDICOLO'' ossia: Tognazzi, Bertolucci e il beneficio del dubbio




Ugo Tognazzi è stato uno dei mostri sacri del nostro cinema, una delle maschere più salde della commedia all’italiana e fra gli artisti la cui vita pienamente corrisponde al perfetto connubio di vita e arte. Tanto per citare alcuni titoli, la sua ricca filmografia si compone di Amici miei, Il vizietto, La grande abbuffata, I mostri, Il federale.
Bernardo Bertolucci, proveniente da una famiglia imbevuta d’arte (il padre Attilio è stato una delle nostre ultime glorie poetiche), è uno degli ultimi cultori della settima arte del panorama italiano. Premio Oscar nel 1988, lo ritroviamo attivo in campo internazionale con Ultimo tango a Parigi, L’ultimo imperatore, Novecento, Piccolo Buddha, Il tè nel deserto e il recente The dreamers.
Poco e nulla in comune legherebbe Tognazzi e Bertolucci: eterno gaudente e tendente al disimpegno anche in lavori impegnati il primo, autore intellettuale e impegnato il secondo. Sottile filo rosso ad unirli, un film del 1981, La tragedia di un uomo ridicolo. Inutile chiedere in giro: la critica ne ha quasi del tutto cancellato l’esistenza dalla storia del cinema. E a torto.
Tognazzi veste qui i panni di Primo Spaggiari, un imprenditore del parmense, proprietario di un caseificio, marito di Barbara (Anouk Aimée), una bella donna di origine francese, e padre di Giovanni (Ricky Tognazzi), a detta del quale egli sarebbe solo “un uomo ridicolo”, a causa del suo comportamento da borghesuccio neoarricchito, del carattere gigionesco e dell’incapacità di prendere le cose sul serio. Un giorno, Giovanni viene rapito da un gruppo di terroristi, che chiedono come riscatto un miliardo di lire. Per Primo sarà l’inizio di un dramma oscuro, al quale si uniranno anche le torbide figure di Laura (Laura Morante), fidanzata di Giovanni e operaia nel caseificio, e di padre Adelfo (Victor Cavallo), un prete operaio, entrambi stranamente troppo informati su certi particolari del rapimento. La conclusione sarà spiazzante…
Si diceva: chiedere oggi informazioni su La tragedia di un uomo ridicolo equivale a chiedere ad un musicista informazioni sulla musica greca del V sec. a. C. Molto ingiustamente, questo film è stato schiacciato da certa critica che ha preferito la magniloquenza dei capolavori di Bertolucci e dei suoi primi lavori, quelli più politicamente schierati, mettendo in ultimo piano un lavoro così fine e complesso, che rasenta le vette dell’arte dell’assurdo. La trama di base non è eccezionale: rapimento e riscatto sono temi ricorrenti in migliaia di “gialli”. La novità sta che nel fatto che il rapimento sembra essere un evento quasi marginale nella storia, in cui tutto è visto nell’ottica straniante di Primo Spaggiari, “l’uomo ridicolo” del titolo. Tognazzi interpreta un personaggio quasi pirandelliano, che si trova ad essere uno, nessuno e centomila. Pur nella sua unità corporale e mentale, egli ci viene presentato sotto vari e frammentati punti di vista: padre di famiglia fallito negli affetti, imprenditore assillato dal duro lavoro, borghese contento della meschinità di una vita qualunque, gigione godereccio represso nei piaceri più sfrenati, tiranno per gli operai prossimi al licenziamento, pagliaccio da circo per il figlio, uomo senza qualità per la moglie scossa dal rapimento di Giovanni, persona rispettabile per la propria comunità, modesto provinciale per tanti altri. E nessuno per se stesso. Specchiandosi, ripercorrendo a ritroso la propria vita in monologhi interiori degni di un Italo Svevo, Primo giunge all’amara consapevolezza di essere una nullità, un uomo senza volto e senza personalità, imprigionato in quelle mille maschere che egli e il mondo tutto hanno costruito; e come difesa dall’essere messo a nudo, è riuscito a chiudersi nel caseificio da lui fondato, che è il suo mondo e la sua sola famiglia, ergendo delle barriere simili alle tessere di un domino. Tuttavia, una tessera finisce col far crollare tutto: la sua famiglia, quella carnale s’intende, viene colpita da un evento imprevedibile, il rapimento di Giovanni. E tutto diviene incerto, sfocato: la moglie finisce quasi sull’orlo della pazzia, gente accorre a casa Spaggiari informata e ignorante al tempo stesso, la polizia brancola, i soldi per il riscatto non ci sono, il caseificio è sull’orlo del fallimento… tutte le barriere, una dopo l’altra, finiscono col crollare e Primo Spaggiari, nudo nell’anima, si rivela per quello che è: un uomo ridicolo. Il ridicolo non sorge tanto da un particolare comico. È diretta conseguenza della nullità di quest’uomo, vuoto, quasi privo di reazioni, incapace di auto-determinarsi, imprigionato da una maschera ipocrita e stritolato poco a poco dagli ingranaggi di un mistero che rimane irrisolto anche dopo la ricomparsa del figlio. Sì, perché nonostante altri gliene avessero annunciato la morte, Giovanni torna a casa durante una festa, dopo il fallimento del caseificio paterno (sottrattogli dalla legge e trasformato in cooperativa). L’enigma sembrerebbe ma essere svelato, ma Primo, e con lui lo spettatore, non è in grado di comprenderlo. Nella scena finale, Bertolucci lascia il beneficio del dubbio: forse che sia andata realmente come sembra trasparire dagli sguardi e dalle azioni degli altri o magari c’è dell’altro sotto? La tragedia si trasforma in un teatro dell’assurdo, in cui la marionetta Tognazzi rimane sballottata senza risolversi. Il finale stesso è una sospensione “insoddisfacente”. Quel che è chiaro è che Bertolucci e quel burlone di Tognazzi si compiacciono di far trionfare il beneficio del dubbio, in un film che tutto è fuorché il giallo che inizialmente vorrebbe essere e che man mano si trasforma in un’analisi pirandelliana, se non addirittura freudiana, della coscienza del personaggio principale.  Bertolucci e Tognazzi creano in effetti un personaggio che avrebbe dato molto da pensare al fondatore della psicoanalisi: monologhi interiori, sguardi, dialoghi spezzati portano in luce l’archetipico conflitto padre-figlio, con dei risvolti inquietanti. Spaggiari-Tognazzi è artefice infatti di una sorta di rovesciamento del conflitto edipico: è il padre, in alcuni tratti, a tentare di “uccidere” il figlio, di eliminarne la presenza, nonostante l’affetto che nutre nei suoi confronti. Si prenda ad esempio la scena in cui tenta un approccio amoroso con Laura (Laura Morante):  avvalendosi della scusa della scomparsa e della presunta morte di Giovanni, egli tenta di sostituirsi a lui nel cuore e nel letto della ragazza, con un risultato fallimentare, in una scena che si conclude con la testa del personaggio china sul seno della ragazza, come quella di un bambino sul seno della madre. Può dirsi che per tutto il film Spaggiari abbia quasi interesse a voler vedere eliminato il figlio, ossia chi lo accusa di essere un uomo ridicolo e la cui scomparsa rischia di “castrarlo”, di togliergli ciò che più ama. A sua volta, l’ambigua conclusione porterebbe in luce l’altro lato di questo conflitto familiare, in cui parte attaccante e vincente sembrerebbe essere proprio il figlio: sorrisi, battute e qualche sguardo incerto sono quasi sul punto di suggerire che in realtà il rapimento non sia mai avvenuto e che Giovanni abbia simulato tutto per causare il fallimento del padre, distruggere il patriarca in ciò che più egli ama e mettere a nudo la sua “ridicolaggine”.
Bertolucci si è avvalso di una regia splendida, delicata, a tratti soffusa e oscura come in un noir francese, evidente nelle riprese del paesaggio immerso nella nebbia, con la macchina da presa che si sofferma sovente sui protagonisti, talvolta in maniera sfuggente. Passando agli interpreti, non si può non elogiare l’ottima prestazione di Ugo Tognazzi, in una delle sue più efficaci prove d’attore (non a caso, sarà insignito della Palma d’Oro al Festival di Cannes), bravissimo a svincolarsi dal sapido sarcasmo del conte Mascetti di Amici miei e dalla graffiante ironia dei vari Vizietti. Notevole è Laura Morante: intensa, a tratti sfuggente, è con lei che Tognazzi mette su una delle migliori scene del film, quella della tentata seduzione di cui si parlava poco più sopra. Da segnalare sono inoltre un’affascinante Anouk Aimée (tra l’altro, una delle interpreti preferite di Fellini) e un Victor Cavallo segnato, quasi al limite del tossico, nei panni del prete operaio. Chicca finale: Giovanni è interpretato da Ricky Tognazzi, figlio di Ugo, oggi fra l’altro prolifico attore e regista dalle alterne fortune.

di Pippo Di Mauro

VOTO: ****

Regia: Bernardo Bertolucci
Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci
Produzione: Giovanni Bertolucci
Interpreti principali: Ugo Tognazzi, Anouk Aimée, Laura Morante, Victor Cavallo, Ricky Tognazzi, Vittorio Caprioli, Renato Salvatori

  • Digg
  • Del.icio.us
  • StumbleUpon
  • Reddit
  • RSS

Psyco: la purezza dell'arte del ''brivido''



Sono pochissimi quei cineasti il cui nome è associabile all'idea stessa di cinema. Tanto costoro hanno contribuito all'innovazione del linguaggio cinematografico, raggiungendo vette artistiche, tecniche e ,in certi casi, poetiche, che le loro opere sono diventate gli elementi costitutivi e basilari della settima arte. Da molti considerato il più grande genio cinematografico mai esistito, Alfred Hitchcock (1899-1980) rispecchia assolutamente il modello ideale di regista. In particolar modo, quando si parla di thriller, gialli, film di spionaggio e anche horror, dovrebbe risultare naturale a intenditori e non, fare riferimento a capolavori come Intrigo Internazionale (1959),  Notorious (1946), La  Finestra sul Cortile (1954) e,naturalmente, Psyco (1960). Nel 1959, sembrava che Hitchcock avesse raggiunto l'apice della carriera, avendo già firmato una serie di capolavori praticamente ininterrotta, da Rebecca, la prima moglie (1940) a Notorious, fino all'osannato La Donna che Visse Due Volte (1958), oltre alle pellicole già citate prima. Ma nel 1959 Hitchcock compra i diritti di un romanzo di genere thriller di Robert Block che si intitola Psycho, e decide di volerne fare la trasposizione cinematografica. Questa è la genesi del film thriller-horror che ha maggiormente influenzato la quasi totalità dei film horror e thriller successivi, oltre che uno dei maggiori capolavori del ''Maestro del brivido''. La trama è assolutamente semplice e lineare: Marion, segretaria di un agenzia immobiliare, ruba 40 000 dollari depositati da un cliente all'agenzia per cui lavora, e fugge in macchina. Durante una giornata di pioggia la donna giunge in un motel sperduto, gestito da uno strano giovane, Norman Bates, introverso e inquietante. Norman sembra attratto dalla giovane donna, momentaneamente unica cliente del motel, e le chiede di cenare con lui. Ma la madre iper-protettiva di Norman, che a quanto dice il figlio non può uscire perchè molto malata, lo chiama in casa per dirgli che non vuole che stia con un'altra donna. Marion assiste alla lite dall'esterno, vedendo in lontananza le sagome di Norman e della madre seduta. Dopo la cena nel motel, Marion va a farsi una doccia nella sua camera, ma mentre è intenta a lavarsi, un personaggio misterioso, che sembra vestire abiti femminili, uccide brutalmente la donna a coltellate. E' stato Norman o la madre a trucidare la povera donna? Vedendo il film fino al suo straordinario epilogo, non solo vengono insinuati i dubbi più profondi nella pur evidente legittimità di questa domanda, ma viene minata nelle sue fondamenta la convinzione della razionalità della psiche umana. 
Questa operazione è resa possibile da Hitchcock, grazie all'evidente costruzione narrativa fondata sulla suspense, l'arte di saper tenere continuamente in tensione (come ''sospesi'' appunto) gli spettatori, mantenendo per tutta la narrazione una forte sensazione di inquietudine e insicurezza; il regista utilizza vari espedienti per realizzare tutto ciò. In Psyco, la suspense raggiunge l'apice. Sembra infatti, che tutte le informazioni per risolvere il caso siano state svelate allo spettatore, e nonostante sia effettivamente così, non si può avere la certezza assoluta che l'assassino sia la madre o sia il figlio Norman. Sicuramente uno dei punti forti del film è il fatto che esso si basi su un continuo inganno che viene perpetrato ''a danno'' degli spettatori. Da un lato, sembra sia chiaro che l'assassino sia la madre: l'assassino indossa abiti femminili e Norman arriva sulla scena del primo delitto con aria sconvolta, non sapendo niente dell'omicidio della donna, e quindi cerca di occultare tutta la scena del delitto per proteggere la madre che rischia di essere scoperta; ma da un altro punto di vista, la figura di Norman è troppo ambigua e bizzarra, dal comportamento a tratti scostante e al contempo mite, una contraddizione vivente. Egli è estremamente attaccato alla madre che lo opprime, non sembra avere alcun amico, la sua unica passione (se si può definire tale) è impagliare uccelli. D'altronde, chi conosce un po' lo stile di Hitchcock, sa che il regista britannico amava rappresentare personaggi moralmente e psicologicamente ambigui, cercando anche di creare una parziale o totale identificazione fra quei personaggi e lo spettatore. Un'altra strategia che Hitchcock utilizza per ''giocare'' con lo spettatore, ingannarlo, dargli delle impressioni e delle informazioni fuorvianti, è lo stratagemma del MacGuffin. Questo stratagemma è un semplice espediente che non ha una vera importanza nella trama del film, ma che costituisce la parte iniziale di esso, è il pretesto narrativo per condurre la storia verso quello che sarà il vero intreccio. Infatti, in Psyco, il MacGuffin è costituito dalla valigia con i 40 mila dollari rubati dalla segretaria Marion. In seguito diverrà evidente che il furto, la fuga della donna e la stessa valigetta con i soldi erano solo gli elementi di un unico procedimento, un semplice pretesto che doveva condurre Marion al motel dei Bates, la pecora nella tana del lupo. L'iniziale interesse per il destino della valigetta con i 40 mila dollari sarà completamente accantonato a favore della  vicenda vera e propria, cioè gli efferati omicidi compiuti nel Bates Motel. Come affermava Francois Truffaut (1932-1984), regista e principale esperto del cinema hitchcockiano, in fin dei conti il MacGuffin ''non è niente'' . Oltre agli straordinari stratagemmi per ottenere la vera suspense, si deve sottolineare il carattere fondamentalmente psicanalitico del film. Il protagonista Norman soffre di un attaccamento patologico, di una gelosia eccessiva nei confronti della figura della madre: il complesso di Edipo freudiano, come d'altronde il tema dell'inconscio in generale rimase sempre un'ossessione per Hitchcock. Psyco rimane ancora oggi così attuale proprio grazie a queste suggestioni e ambiguità che affascinano lo spettatore: un film intriso di una insana necrofilia, che mette in luce la tematica attualissima del travestitismo, e che analizza un caso di sdoppiamento, o ,sarebbe meglio dire, sovrapposizione di identità. Ma l'elemento di straordinaria originalità artistica di questo film, e ancora oggi oggetto di studio, rimane sicuramente lo stile della regia, cui si aggiunge la straordinaria tecnica di montaggio. La prova di ciò risulta evidente in alcune scene del film, ormai leggendarie. Come non citare la celebre scena dell'omicidio nella doccia: occorsero 72 posizioni della cinepresa, per realizzare questa scena di brutale accoltellamento di 22 secondi in cui sono compresse, grazie ad un serratissimo montaggio, 35 inquadrature del coltello che si scaglia contro Janet Leigh, senza che si veda mai l'arma che si conficca nel suo corpo. Come in ogni film di Hitchcock, la cinepresa è un vero e proprio personaggio ''invisibile'': l'uso straordinario della soggettiva permette l'immedesimazione dello spettatore con il protagonista Norman, con la sua visione distorta e malata della realtà. Nella scena in cui Norman arriva sulla scena del delitto, proprio questa tecnica alternata ad un primo piano, dà l'impressione che Norman sia stato all'oscuro sino a quel momento dell'assassinio avvenuto: si attua un processo di straniamento dalla verità dei fatti, che, nonostante tutto, non si presenterà come qualcosa di totalmente spiegabile razionalmente, restando sempre sul piano dell'ambiguità. All'epoca, alcuni critici mostrarono un certo disappunto per il disimpegno intellettuale di Hitchcock in questo film, che appariva come un esercizio di stile fine a se stesso. Ma, proprio questo aspetto di Psyco, concepito come opera di cinema puro, di ''arte per l'arte'', fine a se stessa e senza scopi di altro genere (morale, sociale, etc) se non quello di far provare la più pura e spontanea suspense attraverso il semplice susseguirsi di immagini, appare,oggi come allora, come un vero trionfo per la settima arte. Il successo del film fu garantito anche dalla magistrale interpretazione di Anthony Perkins, che impersonò il nevrotico Norman Bates con una tale intensità e immedesimazione, da essere consacrato come il ''pazzo'' più famoso della storia del cinema, restando imprigionato per il resto della carriera in questo tipo di ruolo. La colonna sonora incalzante di Bernard Hermann è un altro punto forte del film, l'ennesimo marchio di fabbrica che rende immortale quest'opera. Con Psyco, nel 1960, Hitchcock ottenne il più grande successo commerciale della carriera, incassando 50 milioni di dollari, mentre il film era stato girato con un budget di 800 mila.
L'influenza di Psyco sulla stragrande maggioranza di autori di film horror continua da 50 anni a questa parte: in film come Profondo Rosso (1975) di Dario Argento, La Casa (1981) di S. Raimi, la saga di Scream di W. Craven, Seven (1995) di D. Fincher , gli horror di Carpenter e molti altri, appare palese l'ispirazione tratta dallo stile e dalle tematiche hitchcockiane di Psyco. Anche per questa ragione, il film è un classico imprescindibile, come classica è ormai l'intera filmografia di Alfred Hitchcock.


di Andrea Raciti


VOTO: *****

Regia: Alfred Hitchcock
Sceneggiatura: Joseph Stefano
Produzione: Shamley Productions
Interpreti Principali: Anthony Perkins, Janet Leigh, Vera Miles, John Gavin
Genere: thriller, horror, giallo
Anno: 1960


  • Digg
  • Del.icio.us
  • StumbleUpon
  • Reddit
  • RSS