La Grande Bellezza: un romanzo sul niente?




Prima o poi, presto o tardi, arriva il tempo in cui un autore, che sia veramente tale, cerca di creare un'opera che sia la summa del suo modo di fare arte e della sua personale concezione della vita in un determinato momento storico, in una data società e in una data città, Roma, co-protagonista silenziosa, totalmente muta in certi momenti, in altri invece terribilmente rumorosa e assordante. Il manifesto di questo punto d'arrivo, di questo traguardo intellettuale e artistico se vogliamo, del regista-sceneggiatore Paolo Sorrentino sarebbe contenuto nell'intenzione dell'autore in questa pellicola, La Grande Bellezza, che dopo la riflessione sul Potere mediante  la figura simbolica di Andreotti ne Il Divo (2008)  e il viaggio di redenzione di This must be the place (2011),  costituisce una sintesi del cinema di Sorrentino, ma ne apre anche nuove prospettive. Si avverte fin dall'inizio della pellicola un' unione/opposizione fra due realtà: una costituita dal grottesco, il bizzarro, la decadenza delle feste della ''dolce vita'' di Roma, l'ipocrisia da salotto radical chic; dall'altro scorci della bellezza antica dell'Urbe che riveste e dietro cui si cela tale decadenza, con il Colosseo, le Terme di Caracalla, i Fori Imperiali, il Tevere stesso. Queste due realtà si rispecchiano e convivono nel protagonista del film, Jep Gambardella (interpretato da uno straordinario Toni Servillo), giornalista di un settimanale, romanziere che ha scritto un solo romanzo più di 30 anni prima. Jep vive immerso nella mondanità della Roma delle discoteche, delle feste dei vip, dei salotti e degli scandali giornalistici. Questa vita che egli stesso definisce un'esistenza basata sul ''niente'', lo assorbe tanto da impedirgli di ricominciare a scrivere; gli manca il materiale da cui trarre ispirazione, essendo assuefatto dal ''niente'' della sua vita. D'altronde, ammetterà, non essendo riuscito nemmeno Flaubert a poter scrivere un romanzo sul niente, come può pretende di riuscirci lui?
Jep, durante uno dei tanti monologhi interiori che caratterizzano il film, afferma che ha voluto vivere a Roma non soltanto per fare vita mondana, ma per essere il ''re dei mondani'', non solo per ''partecipare alle feste'' ma per avere pure ''il potere di farle fallire''. Una vita da bohemienne di Roma (anche se di origine napoletana), festaiolo e nullafacente, che vede la vita in modo disincantato, senza illusioni, nel ricordo del suo primo e unico successo letterario giovanile, riservando battute taglienti e pillole di disillusione ai suoi amici. Jep però non è solo questo. Dice di aver deciso di vivere a Roma per cercare ''la grande bellezza'', una ricerca durata 40 anni ma mai giunta ad un risultato a quanto afferma malinconicamente, osservando le meraviglie di Roma come un girovago inquieto cercando una sorta di innocenza perduta, un ideale puro nella decadenza che lo circonda e di cui è un protagonista attivo. Questo esteta decadente, che ricerca  sensazioni di piacere ad ogni costo, che vive per l'arte anche se non riesce a realizzarla, comincia però a percepire anche la morte intorno a lui, la sua indifferenza e la sua disillusione vengono messe in discussione da diversi avvenimenti. La donna che era stata il suo primo amore di gioventù muore; a questa donna, ricollegava una sorta di passione pura, innocente, la ''grande bellezza''. Jep viene a sapere dal marito che anche se avevano perso i contatti da almeno 30 anni, lei aveva continuato ad amare lui. Muore per un male incurabile anche la figlia (un ottima S. Ferilli) di un suo amico proprietario di un night club, con cui trascorre gli ultimi giorni facendola partecipare alle sue feste e portandola a visitare le opere d'arte dei palazzi nobiliari romani. Il suo amico Romano, scrittore teatrale fallito, interpretato intensamente da Verdone, lascia Roma dopo 35 anni, non riesce più a sopportare la mondanità romana, non riesce più a vivere di '' niente'', torna a casa sua in provincia. La svolta sembra arrivare con l'arrivo a Roma di una suora ultracentenaria che Jep deve intervistare detta ''La Santa'': dall'incontro con questa donna, forse comincia a credere che la sua vita fondata sul ''niente'' non è stata inutile, la sua ricerca della ''grande bellezza'' non è stata sprecata. Proprio nella sua vita miserabile e apparentemente insensata, come la vita di tutti noi, sotto il ''chiacchiericcio e rumore'' ci sono ''sparuti incostanti sprazzi di bellezza'', dentro quel niente c'è ancora qualcosa da salvare, qualcosa da raccontare e di cui scrivere: il romanzo che deve scrivere, questo romanzo sul niente può avere inizio secondo Jep.
Niente che dire: l'interpretazione di Toni Servillo contribuisce a rendere questo film (altrimenti difficile da rendere godibile agli spettatori senza un interprete di questo calibro) una sorta di riflessione sull'arte e sulla vita dell'uomo contemporaneo condotta in maniera disincantata e ironica, in certi momenti fredda, a cui seguono momenti di grande pathos (la scena in cui Jep ricorda il suo incontro con la prima ''fiamma'' in gioventù) a cui si contrappongono le scene contraddistinte da inquadrature di figure grottesche (il capo di Jep nana alla fine di una festa, vecchie soubrettes decadenti, feste pacchiane) ricorrenti nello stile di Sorrentino (come ne Il Divo). Tutto questo circo di maschere, questa galleria di personaggi, lo spettatore li vede e li interpreta attraverso lo sguardo di Jep-Servillo, che coglie il lato grottesco, nel senso pirandelliano di tragi-comico, della sua vita. Ma, al contempo, Jep cerca di trovare dietro ''l'uomo miserabile'' questi ''sprazzi di bellezza'', attimi, sguardi, parole, che mostrino anche l'altra faccia, forse più consolante della vita contemporanea. Il monologo interiore del protagonista caratterizza quest'opera,  in certi momenti allucinata e volta a rappresentare un vitalismo senza limiti nelle feste della Roma mondana con campi lunghi che inquadrano una sorta di baccanale di gruppo irrefrenabile in cui la cinepresa si ''immerge'' con l'intenzione quasi di trascinare anche lo spettatore nella festa. Grandiosi i campi totali dei monumenti di Roma, inquadrati in certi momenti quasi come una soggettiva dal punto di vista del protagonista che osserva ad esempio il Colosseo, praticamente sotto casa, dal balcone della sua terrazza. Numi tutelari del film di Sorrentino sono da considerarsi a parere di chi scrive due film di Federico Fellini, di cui Jep-Servillo con la sua interpretazione crea una sintesi dei rispettivi protagonisti: La Dolce VIta (1960) innanzitutto, come Mastroianni, Jep è un giornalista scandalistico che vive la mondanità romana, partecipando a feste e orge varie, ma al contempo è alla ricerca di una bellezza ideale, di un'innocenza perduta irraggiungibile; Il Casanova di Federico Fellini (1976), come il Casanova, Jep sembra vivere quasi schiavo di un meccanismo che lo obbliga a vivere in funzione dell'attività esclusivamente sessuale, in fin dei conti disprezzato e usato dagli altri, ma anche lui ricerca nell'illusione, nell'arte un senso alla sua vita: Jep deciderà di scrivere finalmente il suo romanzo, constatando infatti che ''tanto, è tutto un trucco''. Una chicca: durante il film un cameo di Antonello Venditti che interpreta se stesso, seduto al tavolo di un ristorante che saluta il suo ''vecchio amico'' Jep. Film di questo pregio fanno continuare a sperare in una rinascita, che (affermo ottimisticamente quanto in modo azzardato forse!) è in corso nel cinema italiano anche grazie a registi come Sorrentino e ad interpreti come Servillo, che credono che ancora lo spettatore sia in grado di avere intelligenza e sensibilità. La Grande Bellezza è attualmente in concorso al Festival di Cannes 2013.



di Andrea Raciti

Voto: *****

Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: P. Sorrentino,U. Contarello
Produzione: F. Cima, N. Giuliano
Interpreti principali: T. Servillo, C. Verdone, S. Ferilli
Genere: Grottesco
Anno: 2013

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Totò che visse due volte: un mondo senza speranza






Molto prima che l'uno presentasse a Venezia il magnifico e acclamato È stato il figlio e l'altro tornasse al documentario con Io sono Tony Scott e Belluscone, e che i toni della loro poetica si ammorbidissero, Daniele Ciprì e Franco Maresco si erano presentati come i registi più furiosi, "anarchici", incontrollabili e terribili che il cinema italiano avesse potuto partorire. Palermitani d'origine, i loro primi passi avvennero nel mondo della televisione, ma la loro carriera sul piccolo schermo non è fatta d'oro, pailettes, nani e ballerine e musiche accattivanti. Passa attraverso una serie di corti mandati in onda su Rai3 in un curioso programma di nome CinicoTv. A chi legge, basterà cercare il nome della trasmissione per trovare su Youtube le tracce di quella geniale e sconvolgente creatura, per fare la conoscenza di personaggi quali il petomane Giuseppe Paviglianiti, il folle Natale Lauria, il minorato Paletta e i disgustosi Pietro e Carlo Giordano. Di che si tratta? Di uno spettacolo di freaks, di personaggi degradati esposti in tutte le loro deformità e perversioni agli occhi dello spettatore sullo sfondo di un paesaggio desolato immortalato in bianco e nero.
Di episodio in episodio, di provocazione in provocazione, i nostri sbarcano al cinema con un'opera prima Lo zio di Brooklyn. Ammettiamolo, niente di speciale, per molti versi la  riproposizione di quanto già visto negli sketch di CinicoTv, salvo qualche brillante trovata. Nel 1998, però, arriva il capolavoro, il film di cui si intende parlare in queste righe: Totò che visse due volte. La sua fama è legata ai guai giudiziari che lo videro protagonista e al furioso dibattito sulla censura che ne seguì, arrivato finanche in Parlamento, con una foga paragonabile solo a quella con cui l'Italia moralista e piccolo-borghese degli anni '60-'70 provvedeva a bloccare i film di Pasolini.
Cos'è questo Totò che visse due volte?
Si tratta di un trittico. Nel corso di un'ora e mezza si snodano tre storie: nella prima, Paletta, un minorato mentale, oggetto di scherno dei ragazzi del paese, tenta disperatamente di procurarsi il denaro per avere un rapporto con una prostituta; nella seconda, Fefè, un vecchio disgustoso e miserabile, fa i conti con la morte del suo amante, il ricco Pitrinu; nel terzo, si assiste ad una curiosa rappresentazione dei giorni della Passione di Cristo, con protagonisti un Messia Salvatore (chiamato per comodità "Totò") vecchio e stanco, e un boss mafioso, tale don Totò,  a lui uguale nel fisico. Scena finale, una triplice crocefissione sulle note del Wir setzen della Passione di San Matetto di J.S. Bach.
L'impressione che si ha nel vedere Totò che visse due volte è quella di annegare in un oceano di melma. Allo spettatore non è concesso alcun respiro, nessuna speranza. La fotografia, di uno splendido bianco e nero, mostra un paesaggio siciliano simile ad un campo di battaglia: fangoso, arido, ridotto in macerie, popolato da creature al di là dell'umano e che tuttavia colpiscono nella loro straziante natura. Si vedono perenni affamati ricorrere a sotterfugi pur di addentare pane ammuffito e ricotta, vecchiette intente a snocciolare rosari, erotomani ossessionati dal sesso che arrivano finanche a tentare di accoppiarsi con delle statue, angeli violentati da energumeni, handicappati pestati e ridotti a fenomeni da baraccone. E si assiste impotenti a tutto questo, in una spirale di continua e desolante degradazione. Non ci si illuda che in mezzo ai sassi di questo squallido deserto possa nascere un fiore: nel mondo di "Totò" è negato spazio pure alla morbidità del femminile. Le donne sono infatti interpretate da uomini travestiti. Non per restaurare una convenzione del teatro classico, nè tantomeno per chissà quale trasgressione. Semplicemente perchè in un mondo che va verso l'autodistruzione e l'affossamento nel materiale, verso lo sgretolamento organico, orbato di qualunque richiamo spirituale e sentimento, non può esservi spazio per la donna, per il delicato, per il bello. Il sesso non è un atto fine a se stesso, è l'unica ragione di vita dei personaggi, che magari non ne traggono nemmeno piacere; è un atto meccanico, sporco, rude, vomitevole, che passa dalla violenza alla prostituzione alla zoofilia come niente fosse fino ad arrivare ad una delle scene più disperate, quella in cui un matto violenta una statua della Madonna (ben si capisce come si sia invocata la mannaia della censura). Ebbene, anche in questo non c'è alcun gusto trasgressivo, non c'è il furore di uno sterile boutade. Negli atti convulsi del personaggio, nell'espressione di un volto segnato, si legge un grido d'aiuto, nei suoi occhi rovesciati la disperazione. Dinanzi alla fame, poi, l'uomo è disposto a tutto, pure a inventarsi di amare un proprio simile, di simulare una passione, di tacere il proprio disgusto per approfittare della buona fede dell'altro. Si è di fronte ad un mondo allo sfascio, privo di valori, privo di una guida, della capacità di vedere altro che non sia materia, sangue, feci e fluidi. L'uomo affonda, fa a pezzi quanto rimane della sua capacità di amare, di elevarsi spiritualmente e razionalmente, annienta ragione e religione, rifugiandosi nella cinica e totalizzante soddisfazione delle proprie pulsioni o in una paralizzante pazzia. In poche parole, nel mondo di "Totò" echeggia da ogni parte il nietzscheiano "Dio è morto!". E ciò che è peggio, è che la ventata di forte nichilismo che pervade ogni singola scena del film non ha via d'uscita, nemmeno il delirio di una volontà di potenza. Esiste solo la più infima e selvaggia sopraffazione, ben incarnata tanto nelle figure degli energumeni stupratori quanto (soprattutto) nei mafiosi che affollano il terzo e ultimo episodio, il più esplicativo. Qui, persino il Redentore ha rinunciato a salvare  il mondo. Non nutre e non infonde speranza, va in giro a dispensare miracoli come un banale guaritore, mette su una grottesca ultima cena nella quale gli apostoli sono interessati soltanto a mangiare e a seguire il balletto di una prostituta. Nessuno ascolta il nostro vecchio e bisbetico Messia, neanche quando tira fuori delle parole più "dolci" e sensate, lo si chiama solo per averne un miracolo usa e getta. E alla fine, viene dissolto in una vasca d'acido dal boss locale.
Il tutto è un pugno continuo allo stomaco dello spettatore, perfetto esteticamente nel suo cozzante equilibrio tra un brutto ammorbante e attimi di sublimazione, commovente nel connubio di immagini e musica, dalla tecnica impeccabile e interpretato da un cast di persone qualunque che strazia il cuore: dalla dolorosa espressività del minorato Marcello Miranda all'avvizzito Salvatore Guttuso. Volessimo ricorrere alle parole che Emilio Praga usò a proposito de I fiori del male, Totò che visse due volte è "una bestemmia cesellata nel diamante", uno spettacolo grottesco, cattivo, cinico, privo di qualunque speranza di salvezza, in cui la degradazione fa da padrona, blasfemo e abbandonato alla disperazione, in cui echeggia la lezione del Pasolini di Accattone, nella descrizione della miseria e persino nella scelta della musica, e dell'orrore di Salò.


Voto: ****



di Pippo Di Mauro

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Mulholland drive. Follia, Black Humor, Grottesco e di nuovo follia.







Prendiamo innanzitutto inquadrature frenetiche da trompe-l’oeil: v'è un'inquieta ansia che ritorna, cadenzata da lievi momenti tarantiniani, a sottolineare e innalzare il surrealismo malvagio di Lynch.

C’è una musica che disturba, gli stessi rombi e tuoni che sembrano soffocarti in Eraserhead o in "The Inland Empire".
La scena si muove irrequieta e si alterna risultando in una profonda dispercezione.
L'amata follia è di nuovo messa a nudo dalla non corrispondenza di fondo tra sorrisi nevrotici, sole e tumulti inquietanti in sottofondo.

Lungi dal dare una spiegazione chiara al linguaggio onirico/imagistico del regista, mi sembra giusto guardare più da vicino il tema del "film nel film", il meta-film, molto caro al cinema di David Lynch. è come se si fosse partecipi di due mondi:
Il primo è la simbologia cui il nostro inconscio ci sottopone, che si riversa in un surrealismo onirico capace di risvegliare inquietudini e paure recondite nello spettatore. 
Il secondo è il banale mondo grigio della realtà.
Il film segue il procedimento quasi di una tragedia greca, nel senso che i personaggi esperiscono poco a poco il mondo malvagio e incredibile dell'interiorità fino a raggiungere stati di allucinazione ostili, ribelli, pazzi. Poi, la liberazione, che non assomiglia tanto ad un guadagno o ad una catarsi ma piuttosto a una rassegnazione epicurea nei confronti dell’incomprensibile.
Se negli altri lavori regna però il disequlibrio totale, tale che lo spettatore è calato a forza nel mondo malato della psiche e delle paure, in questo vi sono degli stacchi, delle attese, degli attimi di semplice azione quasi comica che avvicinano lo spettatore, lo tranquillizzano prima di schiacciarlo sotto il ponente tragico dell'interiorità.

Lorzo 94

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