Mulholland drive. Follia, Black Humor, Grottesco e di nuovo follia.







Prendiamo innanzitutto inquadrature frenetiche da trompe-l’oeil: v'è un'inquieta ansia che ritorna, cadenzata da lievi momenti tarantiniani, a sottolineare e innalzare il surrealismo malvagio di Lynch.

C’è una musica che disturba, gli stessi rombi e tuoni che sembrano soffocarti in Eraserhead o in "The Inland Empire".
La scena si muove irrequieta e si alterna risultando in una profonda dispercezione.
L'amata follia è di nuovo messa a nudo dalla non corrispondenza di fondo tra sorrisi nevrotici, sole e tumulti inquietanti in sottofondo.

Lungi dal dare una spiegazione chiara al linguaggio onirico/imagistico del regista, mi sembra giusto guardare più da vicino il tema del "film nel film", il meta-film, molto caro al cinema di David Lynch. è come se si fosse partecipi di due mondi:
Il primo è la simbologia cui il nostro inconscio ci sottopone, che si riversa in un surrealismo onirico capace di risvegliare inquietudini e paure recondite nello spettatore. 
Il secondo è il banale mondo grigio della realtà.
Il film segue il procedimento quasi di una tragedia greca, nel senso che i personaggi esperiscono poco a poco il mondo malvagio e incredibile dell'interiorità fino a raggiungere stati di allucinazione ostili, ribelli, pazzi. Poi, la liberazione, che non assomiglia tanto ad un guadagno o ad una catarsi ma piuttosto a una rassegnazione epicurea nei confronti dell’incomprensibile.
Se negli altri lavori regna però il disequlibrio totale, tale che lo spettatore è calato a forza nel mondo malato della psiche e delle paure, in questo vi sono degli stacchi, delle attese, degli attimi di semplice azione quasi comica che avvicinano lo spettatore, lo tranquillizzano prima di schiacciarlo sotto il ponente tragico dell'interiorità.

Lorzo 94

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