L'Udienza: ossia il lato kafkiano della Chiesa






Tra i recenti prodotti del cinema italiano balzati agli onori della cronaca, vi è l’ultima fatica di Nanni Moretti, Habemus Papam. Vuoi la notorietà di cui il Nanni gode da tempo presso i circoli intellettualistici dei critici cinematografici, vuoi perché il suddetto regista, nel bene o nel male, resta uno dei pochi a scostarsi dal modello “vacanzieri deficienti – coppie scoppiate – adolescenti in tempesta ormonale” che ormai domina in sala (a parte le rare eccezioni di un Sorrentino, un Tornatore, un Salvatores, per fare qualche esempio, o i recenti A.C.A.B e Diaz) e ad esprimere un tipo di cinema tutto suo, il film ha ottenuto il riscontro positivo della critica, italiana e internazionale. Con buona pace della cricca di radical-chic e pseudo-intellettuali che ammorbano le pagine della critica cinematografica, Habemus Papam è stato ritenuto un film di grande impatto, con profonde spinte etiche (?), una delicata analisi dell’animo umano e un ottimo sguardo sul potere della Chiesa.
Peccato che l’unico film italiano che si sia soffermato sul potere ecclesiastico e sulla sua forte ritrosia a passare dalla parte dell’homo homini homo, risalga al 1972. Si tratta de L’udienza di Marco Ferreri.
Il titolo di Maestro si addice perfettamente alla persona di Ferreri, autore di nicchia del panorama italiano e creatore di un cinema “anarchico”, surreale, che trae ispirazione da quel Luis Bunuel, che tanto egli dichiarò di ammirare, producendo opere come La grande abbuffata, Ciao maschio, Dillinger è morto, L’ape regina e La donna scimmia, caratterizzate da un profondo cinismo, una serrata critica ai dogmi e  alla società borghese e consumista (filtrata anche dall’influenza, in parte, di Pier Paolo Pasolini) e da una narrazione surreale e mai banale.
L’udienza è la storia di Amedeo (interpretato da Enzo Jannacci, in una delle sue apparizioni cinematografiche), un giovane settentrionale venuto in Vaticano, perché vuole a tutti i costi parlare col Papa. Non si sa di cosa, né tanto meno egli lo rivelerà nel corso del film: sta di fatto, che vuole incontrare il Santo Padre a quattr’occhi e, a differenza di tanti altri turisti e curiosi che si limitano ad un laconico “sì, Santità” o “no, Santità”, discutere con lui. La cosa turba tanto i prelati dell’entourage del Papa, quanto le autorità del Vaticano, in primis il commissario Aureliano Diaz (Ugo Tognazzi), che, non riuscendo ad incriminarlo di nulla, è costretto a lasciarlo libero, ma tenta in ogni modo di tenerlo lontano da un probabile incontro col Papa, ricorrendo ora a minacce, ora all’aiuto di una giovane prostituta (Claudia Cardinale), che lo seduca, convincendolo a desistere. Amedeo però non demorde e si rivolge prima all’eccentrico Principe Donati (Vittorio Gassman), poi all’ambiguo Padre Amerin (Michel Piccoli) e ad una congrega di teologi belgi. Tenta addirittura di forzare la resistenza delle guardie svizzere in Piazza San Pietro. Tra ulteriori tentativi e le manovre delle “eminenze grigie” per allontanarlo, si arriva al surreale e tragico finale.
Prendere di mira il mondo delle istituzioni ecclesiastiche e la religione è un’operazione fin troppo facile. Lo dimostrano tanto la pseudo-satira libertaria, tanto la fiammata di “odio” disperato e ribelle di chi oggi si proclama ateo o anticlericale per moda o per partito preso (quando magari non sa nemmeno darne una spiegazione coerente). Solitamente basta prendere un prete grasso o dalla sessualità repressa e il gioco è fatto. Ferreri, che nel suo cinema non provoca mai a vuoto, sa bene di toccare un punto delicato e di dover andare oltre la semplice satira più o meno graffiante, e mostra allora una vicenda strappata a qualunque briciolo di umanità, “cattiva”, beffarda, oscura fino alla fine. Gli elementi per mettere su una storia efficace non gli mancano. Nel 1972, vige il pontificato di Paolo VI, quel papa che, nel raccogliere l’eredità di Giovanni XXIII, a cominciare dal Concilio Vaticano II (discutere dell’efficacia o meno del quale, tanto da credenti, quanto da non credenti, è qui inopportuno), si mostrò molto più di transizione che il suo predecessore. ’72 significa, indirettamente, ’68, e prima ancora, la primavera ideologica degli anni ‘60 che finì col condizionare, tra vittorie e fallimenti, buona parte della mentalità italiana dell’epoca successiva al secondo dopoguerra. E questo finisce col coinvolgere anche il campo religioso. Il breve pontificato di Giovanni XXIII (morto nel 1963) fu segnato da una profonda apertura nei confronti del suo tempo. Pur nel tradizionale conservatorismo delle istituzioni ecclesiastiche, diede inizio ad una campagna di rinnovamento all’interno della Chiesa, tentando di svecchiarla dai molti formalismi che fino ad allora l’avevano contrassegnata, rendendola così distante dall’uomo (operazione che, nella storia recente, è stata ripetuta sotto altre forme solo da Giovanni Paolo II) In poche parole, il suo pontificato fu attraversato da una lieve ventata di “modernismo”, che Paolo VI tentò di riprendere, riscontrando però la chiusura degli ambienti vaticani. È questo il tema che finisce col dominare il film di Ferreri: il suo occhio si sofferma sulla struttura secolare, di potentato, di un’istituzione idealmente vicina al cuore dell’uomo eppure chiusa a riccio su se stessa, incapace di aprirsi realmente alla miseria altrui, alla cura degli altri, all’ascolto nei confronti dei fedeli, dominata dalla burocrazia e dal timore di perdere un potere che rimane fine a se stesso: in poche parole, una Chiesa “politica”. Ne emerge il quadro impietoso di una Mater che non è accogliente o pia, ma fredda e distante, adornata d’oro, profumata d’incenso e arricchita di parole echeggianti di vana spiritualità, quello che, riflettendo sulle parole evangeliche, risulta essere un “sepolcro imbiancato”. Molto simbolicamente, con un tocco di pura genialità, allora, la macchina da presa si sposta su un personaggio anonimo, nella storia. Siamo a metà film. A seguito di un suo ennesimo, disperato assalto, Amedeo è stato forzatamente rinchiuso in un convento-prigione, insieme ad altri “pericolosi libertari” (uno di essi, tanto per fare un esempio, è un monaco sostenitore della tanto discussa “teologia della liberazione”). Qui, incontra un vecchietto, tale Giovanni Rossi. Qual è l’eccezionalità in tutto ciò? La sua somiglianza, tanto fisica, quanto comportamentale, col defunto Giovanni XXIII. Fino alla sua ultima apparizione, il personaggio mostra nei confronti di Amedeo quell’umiltà, quella gentilezza, quello spirito di fratellanza che gli è stato negato di ricevere tra le mura del Vaticano. E cosa più importante, uno spirito paterno, lo stesso che Amedeo sembra ossessivamente ricercare sin dall’inizio: si potrebbe quasi dire che egli veda nella figura del Papa un vero padre e che voglia incontrarlo, spinto dalla voglia di abbracciare una figura vicina, calda, pronta a tendere la mano, a mostrarsi degna del titolo tanto di vicario di Cristo, quanto di “Santo Padre”. In ciò, Amedeo sarebbe il simbolo di un’umanità misera, abbandonata a se stessa dal potere e che, disperata, va alla ricerca di padri che permettano loro di risollevarsi e indichino loro la via. Che la scelta sia la Chiesa, rende il tutto ancora più significativo, in quanto essa, più d’ogni altra organizzazione umana, dovrebbe condurre alla liberazione dell’uomo dalle catene della schiavitù e dell’ingiustizia terrena, elevandolo al Padre per eccellenza, ossia Dio. Ferreri (anticlericale, ma non ateo fino in fondo) si rende conto di come invece un profondo nichilismo, l’assenza di vera spiritualità e l’oscura fascinazione del potere dominino le alte sfere degli ambienti ecclesiastici, soffermandosi sull’aspetto più inquietante della macchina del potere, ossia la burocrazia: Amedeo è, infatti, sballottato da un ufficio all’altro in un’insensata, interminabile spirale di intricati giochi di potere: l’unico a commuoversi per lui è un teologo belga, interpretato da Alain Cuny, cui il protagonista sussurra il motivo dell’udienza.. Nasce così una sceneggiatura che spazia da Kafka a Bunuel, in una curiosa e riuscitissima unione tra opere come Il castello e Il processo (per molti versi, la scena finale ricorda il racconto Alle porte della legge) e L’angelo sterminatore, in un’atmosfera surreale, graffiante, se vogliamo sconvolgente: da una curiosa lavanda dei piedi della Cardinale allo stravagante nobile Gassman, all’esame nella gendarmeria del Vaticano, fino alla scena finale, una cinica ringkomposition che non chiude la storia, ma la riapre, e chissà, forse con esiti ancora più tragici. Lo sguardo allucinato del regista si muove attraverso le aure ovattate di chiese, conventi, portici, di palazzi dimora di potenti che affidano il loro successo alla vicinanza con la Chiesa, la dolciastra atmosfera dell’appartamento in cui la Cardinale tenta di distrarre Amedeo, offrendosi a lui anima e corpo (ma soprattutto corpo), e tra le architetture imponenti di Piazza San Pietro. Ogni cosa sembra chiudersi su se stessa e soffocare tanto il protagonista, quanto lo spettatore, facendo emergere, attraverso le immagini, una maschera di spietato cinismo frammisto ad istanti di sincera commozione e partecipazione alle sventure umane. Il tutto senza mai annoiare, in un clima che si muove tra momenti volutamente comici e ammiccanti, altri drammatici e ricchi di amarezza. Il ricchissimo cast non viene meno alle promesse, si dimostra affiatato e calza a pennello ogni ruolo.


di Pippo Di Mauro


VOTO: ****

Regia: Marco Ferreri
Sceneggiatura: Marco Ferreri
Interpreti principali: Enzo Jannacci, Ugo Tognazzi, Claudia Cardinale, Vittorio Gassman, Michel Piccoli, Alain Cuny
Genere: drammatico
Anno: 1972

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Classifica dei 10 migliori Thriller di sempre secondo ''THE FINAL CIAK!''






La Classifica:

1) La Finestra sul Cortile (1954) di Alfred Hitchcock
2) Rapina a Mano Armata (1956) di Stanley Kubrick
3) Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri
4) Non è un Paese per Vecchi (2007) di Joel e Ehan Coen
5) L'Infernale Quinlan (1959) di Orson Welles
6) Frenzy (1972) di Alfred Hitchcock
7) The Departed (2006) di Martin Scorsese
8) M- Il Mostro di Dusseldorf (1931) di Fritz Lang
9) Mulholland Drive (2001) di David Lynch
10) Seven (1995) di David Fincher


di Andrea Raciti

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Cesare Deve Morire: arte e redenzione



Quando si parla di sperimentalismo, non necessariamente bisogna pensare ad una sorta di salto a occhi chiusi nel vuoto, ad un viaggio verso ''territori'' inesplorati in qualunque ambito artistico, anzi molte volte con questo termine possiamo riferirci alla fusione e la conseguente ripresa di stili, modi di rappresentazione più o meno illustri del passato, tesi però verso nuovi obiettivi. Con questo Cesare Deve Morire, i fratelli Taviani ( Padre Padrone, Kaos, Tu ridi) sembrano seguire proprio questa forma di sperimentalismo. 
Il film infatti è stato definito un docu-film, poichè riprende le prove e la messa in scena del Giulio Cesare di W. Shakespeare, di un gruppo di attori se vogliamo non convenzionale: infatti, gli interpreti di questo dramma storico sono i carcerati reclusi nel settore di massima sicurezza di Rebibbia, diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli. Tutti gli attori-carcerati sono condannati a pene che ammontano a diversi anni di carcere o all'ergastolo stesso, avendo compiuto gravissimi reati, fra i più disparati. Veniamo a sapere durante i provini degli stessi carcerati per entrare a far parte del cast, le loro generalità, il reato commesso e il tipo di pena da scontare. Un realismo estremo contraddistingue le prime sequenze del film: veniamo infatti direttamente a conoscenza delle informazioni basilari riguardo a dei pluriomicidi, spacciatori, mafiosi. Già dai provini risulta assolutamente evidente dai volti, dalle parole e dai gesti di questi individui, il loro stato di emarginazione, abbrutimento, disperazione. Ma queste sequenze danno corpo semplicemente all'incipit, il film infatti non ha come scopo principale quello di documentare una condizione umana ormai degradata. Il film documenta una presa di coscienza, un rinnovamento morale di un gruppo di carcerati, semplicemente riprendendo le prove di ogni scena del dramma, il costante studio delle battute soprattutto da parte degli attori protagonisti, gli interpreti di Bruto, Cesare e Cassio, fino ad arrivare alle scene finali in teatro della battaglia di Filippi e del suicidio dei due cesaricidi. Non è un Giulio Cesare convenzionale quello interpretato dai carcerati di Rebibbia: infatti, ogni attore recita le battute nel proprio dialetto di origine, chi in napoletano, chi in romanesco, con brevi passaggi in italiano. L'influenza del neorealismo italiano è evidente da questi primi particolari: a recitare non sono attori professionisti, ma gente ''della strada'', carcerati in questo caso. Non meno palese è il retaggio di Pasolini, per cui gli attori ,presi dalla strada, parlano il loro dialetto, per esprimere in modo autentico, immediato, vero, pur mantenendosi nella finzione, le passioni che emergono dalle loro parole, come nei film del regista-scrittore romagnolo. Man mano che si va avanti con le prove delle scene, una convinzione sempre più forte comincia a insinuarsi fra gli attori-carcerati, ciò che essi stanno facendo e dicendo solo per finta, non li ha semplicemente aiutati ad uscire da una condizione da reclusi, emarginati: questi individui sono entrati in una dimensione fino ad allora a  loro sconosciuta, l'arte. I carcerati così, scoprono la libertà espressiva di cui l'arte è garante; cominciano a rendersi conto che quelle stesse passioni di cui quei personaggi furono portatori restano immortali grazie alla rappresentazione teatrale, grazie al loro sforzo in questo caso, di far rivivere quelle passioni. In definitiva, la scoperta dell'arte provoca nei carcerati la presa di coscienza di una superiore forma di libertà; cosicchè si ha la sensazione che ogni scena del dramma shakespeariano recitata dal gruppo di carcerati arrivi ad assumere un'aura epica, solenne: ogni dialogo fra i congiurati, ogni monologo, rappresenta nella finzione del dramma quanto per gli stessi carcerati, un passo avanti verso una sorta di ''avvaloramento'', ma soprattutto di pura redenzione morale. Quale tragedia avrebbe potuto esprimere meglio questi sentimenti, se non il dramma per antonomasia sulla lotta titanica contro il tiranno per la conquista della libertà, il Giulio Cesare? E' cosi che in questo film, grazie a questo particolare esperimento (neo)realista di teatro nel cinema, emerge dalla finzione scenica la pura verità sulla natura ancora profondamente e disperatamente umana di questi carcerati, che arrivano a identificarsi e immedesimarsi più che nella mente, nell'anima stessa dei loro personaggi, di Cesare, di Bruto, di Cassio, di Antonio. Ecco che nel film sorge spontanea la riflessione sul significato della recitazione, dell'interpretazione: non si tratta della semplice identificazione con una maschera fittizia, ma essa è tale se viene a crearsi l'amore vero e proprio per un personaggio, una condivisione di passioni e ideali. Il carcerato che interpreta Cesare, arriva a considerare il suo personaggio ''un genio'', l'interprete di Bruto prova con impegno maniacale le sue battute tanto è rimasto sedotto dalla tragica vicenda del cesaricida, in cui sembra quasi rivivere fatti di sangue di cui lui stesso fu testimone o protagonista. L'esperienza artistica-teatrale cambia radicalmente questi uomini, ma dopo la fine della rappresentazione teatrale, gli ''attori di Rebibbia'' tornano nelle loro celle, carichi di una nuova, tragica consapevolezza. Infatti, l'interprete di Cassio, rinchiuso nella sua cella, dopo qualche secondo di silenzio amaramente afferma:'' Da quando ho conosciuto l'arte, questa cella è diventata una prigione''. La libertà interiore raggiunta grazie all'arte, ha reso pienamente consapevoli i carcerati della loro condizione, in cui sembra ormai impossibile esprimere se stessi a causa della reclusione. Questi uomini si rendono conto dell'altra faccia dell'arte, la sua natura illusoria, fittizia, appunto perchè libera creazione, ma che per qualunque uomo, e più che mai per condannati all'ergastolo o ad anni di prigione, può diventare più reale e straordinaria della vita stessa.
Tutto ciò viene espresso stilisticamente da uno splendido bianco e nero per tutte le scene del film ambientate nel carcere, che esprime perfettamente il senso di prigionia, aridità, inquietudine, e che nei moltissimi primi piani e nei campi lunghi delle scene di gruppo, come la riunione per il giuramento dei congiurati e dell'assassinio di Cesare, dona anche l'atmosfera di tragicità e maestosità per un Giulio Cesare girato direttamente in carcere per giunta.
Questa pellicola pertanto, raggiunge per questi motivi un livello di eccellenza tale che ha pochissimi paragoni nel cinema italiano di questi ultimi anni, poichè la potenza visiva e comunicativa del film grazie alla sintesi di vita e arte, di verità e finzione, di Shakespeare e cinema, ha dato vita ad un'opera unica nel suo genere. Cesare deve morire è stato il film italiano scelto per partecipare agli Academy Awards del 2013 fra le pellicole che concorrono per aggiudicarsi l'Oscar al miglior film straniero. Il cinema italiano rappresentato dai precedenti Gomorra scelto nel 2009 e Terraferma nel 2012, non ebbe attribuita la statuetta, nonostante l'indiscutibile qualità superiore di queste pellicole, ma forse, il film dei Taviani riuscirà finalmente a ridare un po' di lustro ufficiale al nostro martoriato cinema, dopo l'ultimo Oscar a La Vita è Bella di Benigni nel '99.

di Andrea Raciti


VOTO: *****

Regia: Paolo e Vittorio Taviani
Sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, Fabio Cavalli
Produzione: Kaos Cinematografica, Rai Cinema
Interpreti principali: Giovanni Arcuri, Cosimo Rega, Salvatore Striano
Genere: docu-film, drammatico
Premi: Orso D'Oro al Festival di Berlino, 5 David di Donatello
Anno: 2012

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