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Loro 1, ovvero il dramma dell'amicizia











Ritornare a recensire, dopo diversi mesi di silenzio, è un'attività carica di un certo fascino. E, quando il fascino deriva da un istinto demolitore, in certi casi, è doveroso rispettare questo istinto, non rifuggendolo, ma assecondandolo con gioia.
 Bene, assecondiamo dunque.


Paolo Sorrentino: quanto si è giustamente elogiata l'opera del cineasta napoletano? Spesso ci siamo sperticati in lodi munifiche, anche su questo blog. Nel 2013, quando ancora La Grande Bellezza non aveva ricevuto lo stra-meritato Oscar al miglior film straniero, in questo sito (e in tanti altri siti del magnifico bosco dell'underground) si riconoscevano i grandissimi meriti del film. Quando il film vinse l'Academy l'anno successivo, in Italia partirono i missili delle lodi unanimi a tutto spiano, un po' dovunque, per poi venir dimenticate poco dopo, a causa della sciagurata trasmissione del film su Canale 5 (come si può godere un film simile con stacchi pubblicitari ogni 10 minuti?). 
In buona sostanza, al netto del cattivo gusto italiota, chi scrive ammira Sorrentino, il suo stile, la sua "poetica" e il suo attore-feticcio, Toni Servillo, uno dei più grandi attori italiani viventi. 
Ma torniamo al presente. Parliamo dell'ultimo film: Loro 1.


Il progetto Loro è connotato, anche solo su un piano strettamente teorico oltre che pratico, da un enorme potenziale di rischio artistico. Il film vuole trasporre sullo schermo alcune vicende riguardanti Silvio Berlusconi e il suo entourage durante la "golden age" del bunga bunga, delle "cene eleganti", delle olgettine, e via dicendo. Prima dell'inizio del film, una citazione di Giorgio Manganelli compare sullo schermo: "Tutto documentato, tutto arbitrario". Inoltre, ci vien detto che il film sarebbe da intendere come "libera reinterpretazione" di alcune vicende reali. Sono le due avvertenze che Sorrentino dà allo spettatore esplicitamente prima che questi si dia alla visione del film. Certamente, queste stesse "avvertenze" hanno accompagnato il regista durante l'ideazione e la lavorazione del film: sono l'espressione del'immenso rischio artistico (non politico) che Sorrentino si è assunto e di cui egli rende partecipe lo spettatore.

Illusione che pervade la realtà storica fino a deformarla, ciò che è documentato diviene materia grezza per un mago della comunicazione di massa: Berlusconi. Questa sarebbe l'idea centrale del film, almeno astrattamente.
Rappresentare Berlusconi, anche se inteso come simbolo di decadenza, risulta, tragicamente, un obiettivo che il cinema di Sorrentino non riesce a perseguire. Le fondamenta sono troppo fragili, troppo "arbitrarie", appunto. Il film si basa su una commistione di diversi elementi, tipici del cinema di Sorrentino, di cui in questo film viene fatto abuso. Il regista pretende di mascherare la totale mancanza di ispirazione con un becero e ostentato simbolismo. Come infatti mascherare ed edulcorare, al contempo, una massa di scene dove tutto ciò che viene rappresentato sullo schermo viene banalizzato da uno sguardo incapace di reale partecipazione emotiva? Non vi è nemmeno umorismo in questo film, perchè non padroneggiando affatto la materia, Sorrentino non è in grado neanche di conferirgli un'immagine grottesca. Immediato sorge il paragone con Il Divo, in cui invece ogni gesto del Servillo-Andreotti, ogni primo piano e dettaglio, sono pervasi dal grottesco, che promana come un fetore ammaliante e respingente dal cadavere putrefatto del Potere, incarnato da Andreotti e dalla sua cerchia. In Loro 1, tutto l'opposto. Sorrentino si arrende alla baraonda di fattarelli di favori sessuali e giri di droga e prostituzione senza un vero sguardo poetico sulle vicende narrate, l'unico che avrebbe salvato il film dalla tremenda idiozia della cronaca di basso livello che Loro 1 narra. Lo sguardo poetico de La Grande Bellezza ad esempio, film stracolmo di meravigliose scene erotiche, di eccessi e spudoratezza, intrise di un disincanto che esprime quel distacco insanabile tra la bellezza agognata ( gli "incostanti sprazzi di bellezza"...) e la realtà meschina, lurida, mortificante ("l'uomo miserabile"). Questo era lo sguardo del poeta Sorrentino. Nell'ultimo film invece, l'estetica della decadenza si autocompiace, senza ritegno, scadendo nel "cronachismo", l'annoiata elencazione di fattarelli e di storie di personaggi che sembrano come posseduti dallo "spirito berlusconiano", che per Sorrentino, a quanto pare, si esaurisce nella mera ossessione per l'eccesso. Non indaga oltre: al regista non sembra interessare molto l'oggetto del suo film. 
Si diverte però Sorrentino, anzi, si compiace, nell'affollare di simbolismo pretestuoso e incosistente il film. Pretestuoso, perchè incosistente. Incosistente, perchè pretestuoso. Mi spiego. I pretesi simboli presenti nel film risultano palesemente innestati "ad hoc".
Ricordano molto gli "spiegoni" delle  serie tv, in cui bisogna far dire ai personaggi della storia ciò che sta succedendo o, peggio, il significato dei fatti narrati. Non so come altro spiegarmi altrimenti la scena della pecora che rimane morta stecchita a causa dell'aria condizionata portata a 0° gradi! O risulta eccessivamente palese il significato, oppure, magari proprio lo spettatore più superficiale, la riterrà quanto visto una scena inutile (e in tal caso dovrei dare ragione a quest'ideale "spettatore superficiale"!). In ogni caso, i simboli sorrentiniani di questa pellicola non nascono affatto in maniera naturale dalla successione di immagini e di domande che si susseguono durante il film (come accadeva magistralmente ne La Grande Bellezza), ma al contrario, sono arbitrari e artificiosi, privi di qualsiasi spessore. Al massimo, sono interpretabili come una strizzatina d'occhio a certi critici. Contenti loro... 

Per chiudere, andiamo al dato che ha ispirato il titolo di questa recensione: "Loro 1, ovvero il dramma dell'amicizia"
L'interpretazione di Servillo è l'estremo sacrificio ad un'amicizia e collaborazione artistica di altissimo livello. Non basta la presenza del protagonista di tanti suoi film a salvare Sorrentino dall'assenza di ispirazione che inficia l'origine di Loro. Servillo non è adatto ad interpretare Berlusconi. Non perchè non sia capace di interpetarlo fedelmente, anzi, lo rende in maniera troppo realistica. Il Berlusconi di Servillo è una macchietta, una caricatura non riuscita, che nasce già morta, uccisa dall'immagine del vero Berlusconi, che è gia caricatura di se stesso, cangiante, fluida, tragicomica. Di fronte alla figura "reale", ossia mediatica, di Berlusconi, quello di Servillo risulta una pallida imitazione, triste perchè innocua, inoffensiva, che sembra fuoriuscita - o forse evocata- da un articolo scandalistico del 2009 o del 2010. Un'immagine datata, che non dice niente di più di quello che già sappiamo. Servillo si è dimostrato fedele collaboratore e amico di Sorrentino, ma stavolta lo ha seguito verso una catastrofe.

Aspettiamo Loro 2, per vedere come si svolgerà il resto della storia. D'altronde, chi scrive non pensa di aver fatto i conti senza la suocera. E' legittimo poter dare un giudizio sul primo capitolo: se la produzione e Sorrentino stesso hanno preferito dividere il film in due parti, risulta logica conseguenza ammettere un giudizio su ciascuna di esse. Posto che sarà ovviamente possibile anche un successivo "giudizio unificato" sull'intero film, dopo che il 10 Maggio potremo vedere la seconda parte.


Andrea Raciti   



 







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Cosmopolis: lo spettro del capitalismo secondo Croneberg













di Andrea Raciti

In''Cosmopolis'' (2012), scritto e diretto da D. Croneberg, c'è tutto il vuoto morale ed esistenziale che ci si può aspettare, forse anche di più. ''Uno spettro si aggira per il mondo'', ed è il capitalismo, racchiuso metaforicamente nella persona di Eric Packer (interpretato da R. Pattinson). Packer nella visione di Croneberg sarebbe la metafora del sistema finanziario globalizzato: Eric è senza emozioni, nè sentimenti, nella sua onnipotenza addirittura stupido perchè non è sfiorato dalla realtà e non comprende le persone intorno a lui, ma vive nell'astrattezza teorica in cui ''c'è solo il futuro'', come gli ricorda una delle sue consulenti. Il film si svolge quasi interamente nella immensa limousine di Packer, blindata e totalmente insonorizzata: l'isolamento dal mondo esterno è totale. Nonostante ciò, Packer decide volontariamente di gettarsi nelle braccia del suo peggior nemico, forse, con l'intenzione di morire, per dare un significato reale alla sua vita. ''Cosmopolis'' è un film molto dialogato, eccellente da questo punto di vista, è anche un'opera claustrofobica, oscura e ambigua esteticamente e narrativamente. Una pecca? Robert Pattinson protagonista nei panni di Packer. Forse, Croneberg avrebbe potuto scegliere un interprete più adatto al ruolo, che Pattinson ha reso al di sotto delle aspettative di ambiguità e tragicità che sono connaturate al personaggio di Packer. Un grandissimo Paul Giamatti risolleva la situazione nel finale dal punto di vista del cast, regalando un'interpretazione magistrale. In conclusione, ''Cosmopolis'' è un ottimo prodotto, con grandi (forse troppo a tratti) ambizioni filosofiche e socio-politiche, che ci restituisce un grande Croneberg, come non si vedeva dai tempi di ''A History of violence'' del 2005. 

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Nymphomaniac: il (non) porno di Von Trier



















di Andrea Raciti


In realtà non c'è molto da dire su questo frutto dell'eclettismo e della genialità perversa del cineasta danese più famoso degli ultimi anni. Pubblicizzare questo film come un'opera pornografica ''di qualità'' è stata una spudorata menzogna, che è stata parzialmente attenuata dal fatto che i produttori e il regista hanno annunciato che la versione uscita quest'anno è censurata in moltissime parti, per cui la versione ''director's cut'', munita di altre scene con attori hard professionisti uscirà successivamente a quanto si dice . Ma a parte questo, la menzogna a fini pubblicitari sulla natura del film rimane. In realtà si tratta di un ''ordinario'' film di Von Trier che per la pesantezza narrativa che lo caratterizza può risultare avulso allo spettatore medio, attirato in sala solo perchè si è fantasticato in giro di un porno ''totale'' realizzato da un regista nordico un po' psicopatico. La divisione in due parti è stata un'ulteriore offesa al film che, per essere apprezzato pienamente al cinema, va visto integralmente. Detto questo, a parere di chi scrive, Nymph()maniac nel suo complesso è un ottimo film, migliore anche dei precedenti Melancholia e Antychrist. Ciò che lo rende un film più che discreto è dato da tutti gli elementi che non lo rendono affatto un porno. Senza rivelare nulla sulla trama, questo film non rappresenta una serie di scene di sesso fine a se stesse, non c'è una mera rappresentazione del sesso per dare allo spettatore un piacere senza un messaggio, una finalità che non vada oltre il piacere stesso: anzi, di piacere non ce n'è per niente. Il film è quasi una seduta psichiatrica, in cui i fatti narrati vengono trattati come una patologia psico-fisica abnorme, sovrastati da sensi di colpa immani e guardati con un senso morale tanto pervasivo da diventare anche urtante, pesante, ma indispensabile al messaggio che l'autore vuole trasmettere. Se si guarda alla materialità delle scene, sono pochissime, nelle due parti in cui il film è diviso, quelle non simulate, ma su tutte incombe sempre lo spettro dell'analisi morale,psicologica e addirittura teologico-metafisica di tutto quanto viene raccontato dalla protagonista del film, volendo tralasciare i momenti in cui si trovano anche strane analogie matematiche! Le rarissime scene erotiche non simulate si perdono e si annullano in questo contesto molto macchinoso,facendo capire dopo la prima mezz'ora che di porno, naturalmente, non ce n'è traccia. Invece si tratta di un altro grande film drammatico, non un capolavoro, di Von Trier, in cui la fanno da padrone la regia non tradizionale, con la telecamera a spalla che rende le inquadrature mobili, alcuni grandi interpreti e soprattutto la fusione magnifica di immagini e colonna sonora (dai Rammestein a Bach) che dà una carica evocativa non indifferente, come in quasi tutti i film del danese. 
Avendo sgombrato il campo dalle idiozie pubblicitarie sul presunto porno, alimentate (furbescamente) anche dal regista in parte, il giudizio sul film è complessivamente positivo.

Voto: ****



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La saga di ''The Purge'': piatto misto di horror e fantapolitica







La notte del giudizio (The Purge)- trailer







di Andrea Raciti


Dopo più di un anno dall'inizio del silenzio stampa di questo blog, il ''ciak'' torna dall'oblio, dall'esilio da un metaforico (ma non troppo) Tartaro. Non si poteva ritornare in grande stile se non con una recensione. Ma non su uno, bensì su due film. Mi riferisco alle opere horror ''La notte del giudizio'' (2013) e il sequel ''Anarchia- La notte del giudizio'' (2014), dirette da James DeMonaco.
Nella struttura sono thriller-horror tradizionali, l'azione si incentra su persone comuni che si difendono dai soliti maniaci assassini di turno. Ma rispetto ad altri film recenti dello stesso genere questi hanno degli assi nella manica. La storia infatti è ambientata in un futuro non troppo lontano, anni '20 del nostro secolo, negli USA. Fatto sta, che la più grande democrazia del ''mondo libero'' è governata da un regime autoritario di ''nuovi padri fondatori''. Il nuovo regime ha praticamente risolto il problema della disoccupazione e anche la criminalità è ormai quasi inesistente. Tutto ciò grazie all'istituzione da parte dei nuovi padri fondatori di una ''giornata della purificazione'', da cui il titolo originale ''The Purge'', che si svolge una volta l'anno, durante la quale tutti i crimini sono legali, compreso l'omicidio. Durante la ''purificazione'' rimangono chiusi gli ospedali, i pronto soccorso e i vigili del fuoco, mentre le centrali di polizia non rispondono a nessuna chiamata. Lo scopo dichiarato dei nuovi padri fondatori è quello di permettere ai cittadini un legittimo ''sfogo'' mediante una giornata di anarchia tesa alla purificazione dello spirito e del corpo, lasciando carta bianca generale per il compimento di qualsiasi malefatta. Come si può immaginare, morti e violenza senza freni e quasi sempre gratuita, quasi. Traspare infatti molto chiaramente in entrambi i film, che la giornata è soprattutto un anomalo strumento di regolazione sociale, diretto allo sterminio programmato di gran parte della massa della povera gente e del ceto medio-basso, ossia di tutti coloro che non sono in grado di acquistare un decente sistema di sicurezza per difendere la propria casa durante la follia collettiva annuale. La distopia presente in quest' horror è sicuramente un elemento, se non di novità, almeno di valorizzazione del genere. Entrambi i film oltre a far sobbalzare dalla poltrona per i brividi improvvisi, fanno anche riflettere lo spettatore, spingendolo ad andare oltre la metafora fantapolitica e a porsi qualche domanda su situazioni reali di dominio e controllo sociale. 
Entrambi i film si caratterizzano per l'azione serrata, senza un attimo di respiro a causa della tensione continua, nonchè l'ottimo dosaggio dei tempi della narrazione, alternando dialoghi di breve durata con sequenze d'azione degne dei migliori action movies degli anni '90, ma (è giusto ammetterlo) con più di un prestito dagli schemi tipici delle serie tv d'azione più recenti come Lost e Prison Break. La regia di prim'ordine di James DeMonaco, contraddistinta da riprese ravvicinate, con abbondanza di primissimi piani e soggettive classiche dell'horror, è l'ingrediente d'eccellenza che permette ai due film di non annoiare lo spettatore neanche per un istante. Una pecca comune ad entrambi i film? Il cast. Tranne un ottimo Frank Grillo protagonista nel secondo film, alcuni degli interpreti chiave sono davvero scialbi e privi di personalità, forse a causa della tara costitutiva dell'horror, cioè la scarsa caratterizzazione dei personaggi finalizzata alla preminenza dell'azione (anche se ci sono alcune eccezioni tra i film horror). Complessivamente quindi si tratta di due ottimi prodotti, che consiglio a tutti coloro che hanno voglia di thriller-horror che tengano in fibrillazione, ma intelligenti e ben congegnati come questi. Stessa valutazione per ambedue i film.
The final ciak is back.


Voto: ***

Anarchia- La notte del giudizio (Anarchy- The Purge 2)- trailer











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Il Caimano: il vuoto totale dell'intellettualismo di Moretti






Le pagine della storia del cinema narrano spesso di film che, nonostante le migliori intenzioni, massicce campagne pubblicitarie e strombazzanti dichiarazioni e acclamazioni, si rivelano essere putridi aborti anziché rosee e pimpanti creature. Il "parto artistico" dà simili risultati quando il film è il frutto di una lunga ed estenuante masturbazione mentale, o quando il regista si sforza di voler dire più di quanto possa essere in grado. Il caimano di Nanni Moretti (si rassegnino sia l'intellighenzia cinematografica, sia la massa di indignati, impegnati ecc. che l'hanno esaltato a scatola chiusa) ne è l'esempio più eclatante. Il caimano è diventato celebre ancora prima di arrivare nelle sale. Motivo? Le voci che volevano che protagonista del nuovo film di Moretti fosse nientemeno che Silvio Berlusconi. La risposta del regista non si fece attendere: "non è un film su Berlusconi". Niente di più vero. Aggiunse poi: "E' un film sull'Italia del berlusconismo e dell' antiberlusconismo". Niente di più falso. 
La storia è quella di Bruno Bonomo, un produttore cinematografico in crisi familiare e professionale: la moglie lo ha lasciato e a nessuno interessano più i B-movie e i trash con cui anni prima tirava avanti. Si presenta per caso, "venuta da cielo in terra a miracol mostrare", tanto per citare Dante, una giovane regista, Teresa, col copione di una sceneggiatura, Il caimano, incentrata su Silvio Berlusconi. Il nostro, spaesato davanti ad un tipo di cinema a lui sconosciuto e che fondamentalmente avversa, ma intenzionato a tirarsi fuori dalle cattive acque in cui naviga, si butta nell'impresa, tra mille peripezie e disavventure. 


Nanni Moretti, da anni, strombazza ai quattro venti la necessità di un cinema cosciente, in grado di guardare ai temi socio-politici con scopi catartici. E il suo, manco a dirlo, a detta tanto dello stesso Moretti, quanto di certa critica, è il cinema ideale, quello più lucido, il più originale, "il più" in generale. Fatto fuori il proprio alter ego Michele Apicella e tralasciando la parentesi de La stanza del figlio, dagli anni '90 Moretti ha dato corpo a delle opere che a suo modo e con uno stile tutto personale - ma che in fondo non è tanto diverso da quella commedia all'italiana che sin da Io sono un autarchico dichiara di odiare a morte - si propongono di analizzare la società, le dinamiche politiche, la crisi di identità, di valori e d'ideali. Una sorta di (ma anche no!) nuovo Pasolini. Sfortunatamente, quest'ultimo è morto senza lasciare eredi e Moretti è il sotto-prodotto di un cinema che tenta disperatamente di essere diverso, pur essendo "più uguale degli altri". Se, difatti, bastasse mostrare esempi di malcostume per essere considerati lucidi ed esperti conoscitori della realtà italiana, dovremmo seriamente rivalutare Neri Parenti e considerarlo il miglior antropologo attualmente in circolazione. 

Il caimano rappresenta il totale fallimento della capacità di analizzare e comunicare in maniera convincente. Non punge, non affonda e, cosa peggiore, non spiega. In primis, nella storia di cornice, recupera un cliché, quello delle difficoltà di lavorazione di un film, che da 8 ½ di Fellini ed Effetto notte di Truffaut è trito e ritrito affidandosi ad una storia di relazioni pericolanti tra personaggi patetici e divorati dalle nevrosi, con un Silvio Orlando che spacca il capello in quattro e tenta di reggere le sorti del film pure quando condivide la scena con una Margherita Buy fastidiosamente assente (si segnala anche una serie di inutili camei, quali quelli di Paolo Sorrentino e Tatti Sanguineti). Poi, cosa ancora più grave, in quelle occasioni che gli sono concesse per parlare del tema principale, ossia l'Italia berlusconiana, non lo fa. Si ritira all'angolo come un pugile timoroso e assiste dalle corde, affidandosi unicamente alle apparizioni macchiettistiche di un Berlusconi intepretato da Elio De Capitani, ad un altro incarnato da un Michele Placido che sembra capitato lì per caso, ad immagini di repertorio (Berlusconi vs Schulze) e infine ad un processo con Moretti nei panni di Berlusconi. E anche qui, dove più il tafano dovrebbe pungere, si ha la dolorosissima impressione che non vi sia alcuno sforzo nel raccontare una delle pagine drasticamente più importanti dell'Italia degli ultimi trent'anni. Almeno su una cosa, però, Moretti era stato sincero: non è un film su Berlusconi. Ottimo. I guai cominciano quando ci si rende che non è nemmeno un film su berlusconismo e antiberlusconismo. Manca il martellante introdursi della televisione nelle case degli italiani (soltanto accennato), mancano i volti della gente "invaghita" del fenomeno mediatico, manca la degenerazione sociale e l'appiattimento politico del paese, manca quell’Italietta cui allude il produttore (Jerzy Stuhr) fatta di arrivisti, arrampicatori sociali pronti a prendere la scorciatoia, di puttane, corrotti, raccomandati, di moralisti della domenica, di intellettuali da salotto, di nani e ballerine, di politicanti da strapazzo, di giornalisti “giornalai”… insomma manca l’Italia nella quale agisce il “caimano”, manca lo psicotico e grottesco teatro fatto di paranoie, apparizioni patinate e sterile opposizione che ha contraddistinto tutta la parabola berlusconiana, mancano toni veramente feroci ad una satira morta che non riesce in alcun modo a mettere alla berlina. Mancano persino la protesta e l’impegno civile d’opposizione: Teresa, interpretata da Jasmine Trinca, è l'unica che praticamente la incarni, ma assume i toni di un angelo scolorito che ripete le stesse frasi e gli stessi concetti senza nemmeno troppa convinzione e non regge l’allegoria della gioventù senza speranze, non quando si assegna ad un simile personaggio il compito di fare da “grillo parlante”. Si arriva, com'è e come non è, alla scena finale, quella del processo a Berlusconi, l'unica che Bonomo riesca a girare, oltre che l'unica che conferisca un po' di dignità a questo prodotto: nell'attacco di Moretti/Berlusconi alla magistratura e la protesta finale con tanto di lancio di bombe carta contro il tribunale, si scorge quel pizzico di ferocia e di lucidità che era mancato per tutto il film, laddove finalmente il grottesco personaggio è messo a nudo nella sua viscidità e nella noncuranza della sfida perenne alle istituzioni che pretende di rappresentare. Ma si ripete: è un eco nel nulla. Non bastano 9 minuti per considerare brillante quella che è la tortuosa operazione di un regista che continua a considerarsi il migliore in circolazione, ma tratta un argomento tanto importante da immaturo, facilone, imborghesito. Il caimano è vuoto, mancante tanto nella parte destruens, quanto nella costruens, non ha nulla da offrire al suo pubblico, neanche un serio spunto di riflessione. In poche parole, proprio il Moretti che accusava D'Alema in "Aprile", non riesce a dire niente che sia "de sinistra". Lo pseudo-intellettuale che fa appello all’impegno sociale di una vecchia gloria come Gian Maria Volontè (il “principe” degli attori di sinistra) è un piccolo borghese come tanti confinato nella propria immensa presunzione, egoismo e mediocrità. Non vale più nemmeno la scusa dell’auto-ironia. Sul banco di prova, il re è nudo. E non basta la cricca compiacente dei suoi fan a coprirlo.




di Pippo Di Mauro

Regia: Nanni Moretti
Cast: Silvio Orlando, Margherita Buy, Jasmine Trinca, Michele Placido, Jerzy Stuhr, Nanni Moretti
VOTO:
**




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La Grande Bellezza: un romanzo sul niente?




Prima o poi, presto o tardi, arriva il tempo in cui un autore, che sia veramente tale, cerca di creare un'opera che sia la summa del suo modo di fare arte e della sua personale concezione della vita in un determinato momento storico, in una data società e in una data città, Roma, co-protagonista silenziosa, totalmente muta in certi momenti, in altri invece terribilmente rumorosa e assordante. Il manifesto di questo punto d'arrivo, di questo traguardo intellettuale e artistico se vogliamo, del regista-sceneggiatore Paolo Sorrentino sarebbe contenuto nell'intenzione dell'autore in questa pellicola, La Grande Bellezza, che dopo la riflessione sul Potere mediante  la figura simbolica di Andreotti ne Il Divo (2008)  e il viaggio di redenzione di This must be the place (2011),  costituisce una sintesi del cinema di Sorrentino, ma ne apre anche nuove prospettive. Si avverte fin dall'inizio della pellicola un' unione/opposizione fra due realtà: una costituita dal grottesco, il bizzarro, la decadenza delle feste della ''dolce vita'' di Roma, l'ipocrisia da salotto radical chic; dall'altro scorci della bellezza antica dell'Urbe che riveste e dietro cui si cela tale decadenza, con il Colosseo, le Terme di Caracalla, i Fori Imperiali, il Tevere stesso. Queste due realtà si rispecchiano e convivono nel protagonista del film, Jep Gambardella (interpretato da uno straordinario Toni Servillo), giornalista di un settimanale, romanziere che ha scritto un solo romanzo più di 30 anni prima. Jep vive immerso nella mondanità della Roma delle discoteche, delle feste dei vip, dei salotti e degli scandali giornalistici. Questa vita che egli stesso definisce un'esistenza basata sul ''niente'', lo assorbe tanto da impedirgli di ricominciare a scrivere; gli manca il materiale da cui trarre ispirazione, essendo assuefatto dal ''niente'' della sua vita. D'altronde, ammetterà, non essendo riuscito nemmeno Flaubert a poter scrivere un romanzo sul niente, come può pretende di riuscirci lui?
Jep, durante uno dei tanti monologhi interiori che caratterizzano il film, afferma che ha voluto vivere a Roma non soltanto per fare vita mondana, ma per essere il ''re dei mondani'', non solo per ''partecipare alle feste'' ma per avere pure ''il potere di farle fallire''. Una vita da bohemienne di Roma (anche se di origine napoletana), festaiolo e nullafacente, che vede la vita in modo disincantato, senza illusioni, nel ricordo del suo primo e unico successo letterario giovanile, riservando battute taglienti e pillole di disillusione ai suoi amici. Jep però non è solo questo. Dice di aver deciso di vivere a Roma per cercare ''la grande bellezza'', una ricerca durata 40 anni ma mai giunta ad un risultato a quanto afferma malinconicamente, osservando le meraviglie di Roma come un girovago inquieto cercando una sorta di innocenza perduta, un ideale puro nella decadenza che lo circonda e di cui è un protagonista attivo. Questo esteta decadente, che ricerca  sensazioni di piacere ad ogni costo, che vive per l'arte anche se non riesce a realizzarla, comincia però a percepire anche la morte intorno a lui, la sua indifferenza e la sua disillusione vengono messe in discussione da diversi avvenimenti. La donna che era stata il suo primo amore di gioventù muore; a questa donna, ricollegava una sorta di passione pura, innocente, la ''grande bellezza''. Jep viene a sapere dal marito che anche se avevano perso i contatti da almeno 30 anni, lei aveva continuato ad amare lui. Muore per un male incurabile anche la figlia (un ottima S. Ferilli) di un suo amico proprietario di un night club, con cui trascorre gli ultimi giorni facendola partecipare alle sue feste e portandola a visitare le opere d'arte dei palazzi nobiliari romani. Il suo amico Romano, scrittore teatrale fallito, interpretato intensamente da Verdone, lascia Roma dopo 35 anni, non riesce più a sopportare la mondanità romana, non riesce più a vivere di '' niente'', torna a casa sua in provincia. La svolta sembra arrivare con l'arrivo a Roma di una suora ultracentenaria che Jep deve intervistare detta ''La Santa'': dall'incontro con questa donna, forse comincia a credere che la sua vita fondata sul ''niente'' non è stata inutile, la sua ricerca della ''grande bellezza'' non è stata sprecata. Proprio nella sua vita miserabile e apparentemente insensata, come la vita di tutti noi, sotto il ''chiacchiericcio e rumore'' ci sono ''sparuti incostanti sprazzi di bellezza'', dentro quel niente c'è ancora qualcosa da salvare, qualcosa da raccontare e di cui scrivere: il romanzo che deve scrivere, questo romanzo sul niente può avere inizio secondo Jep.
Niente che dire: l'interpretazione di Toni Servillo contribuisce a rendere questo film (altrimenti difficile da rendere godibile agli spettatori senza un interprete di questo calibro) una sorta di riflessione sull'arte e sulla vita dell'uomo contemporaneo condotta in maniera disincantata e ironica, in certi momenti fredda, a cui seguono momenti di grande pathos (la scena in cui Jep ricorda il suo incontro con la prima ''fiamma'' in gioventù) a cui si contrappongono le scene contraddistinte da inquadrature di figure grottesche (il capo di Jep nana alla fine di una festa, vecchie soubrettes decadenti, feste pacchiane) ricorrenti nello stile di Sorrentino (come ne Il Divo). Tutto questo circo di maschere, questa galleria di personaggi, lo spettatore li vede e li interpreta attraverso lo sguardo di Jep-Servillo, che coglie il lato grottesco, nel senso pirandelliano di tragi-comico, della sua vita. Ma, al contempo, Jep cerca di trovare dietro ''l'uomo miserabile'' questi ''sprazzi di bellezza'', attimi, sguardi, parole, che mostrino anche l'altra faccia, forse più consolante della vita contemporanea. Il monologo interiore del protagonista caratterizza quest'opera,  in certi momenti allucinata e volta a rappresentare un vitalismo senza limiti nelle feste della Roma mondana con campi lunghi che inquadrano una sorta di baccanale di gruppo irrefrenabile in cui la cinepresa si ''immerge'' con l'intenzione quasi di trascinare anche lo spettatore nella festa. Grandiosi i campi totali dei monumenti di Roma, inquadrati in certi momenti quasi come una soggettiva dal punto di vista del protagonista che osserva ad esempio il Colosseo, praticamente sotto casa, dal balcone della sua terrazza. Numi tutelari del film di Sorrentino sono da considerarsi a parere di chi scrive due film di Federico Fellini, di cui Jep-Servillo con la sua interpretazione crea una sintesi dei rispettivi protagonisti: La Dolce VIta (1960) innanzitutto, come Mastroianni, Jep è un giornalista scandalistico che vive la mondanità romana, partecipando a feste e orge varie, ma al contempo è alla ricerca di una bellezza ideale, di un'innocenza perduta irraggiungibile; Il Casanova di Federico Fellini (1976), come il Casanova, Jep sembra vivere quasi schiavo di un meccanismo che lo obbliga a vivere in funzione dell'attività esclusivamente sessuale, in fin dei conti disprezzato e usato dagli altri, ma anche lui ricerca nell'illusione, nell'arte un senso alla sua vita: Jep deciderà di scrivere finalmente il suo romanzo, constatando infatti che ''tanto, è tutto un trucco''. Una chicca: durante il film un cameo di Antonello Venditti che interpreta se stesso, seduto al tavolo di un ristorante che saluta il suo ''vecchio amico'' Jep. Film di questo pregio fanno continuare a sperare in una rinascita, che (affermo ottimisticamente quanto in modo azzardato forse!) è in corso nel cinema italiano anche grazie a registi come Sorrentino e ad interpreti come Servillo, che credono che ancora lo spettatore sia in grado di avere intelligenza e sensibilità. La Grande Bellezza è attualmente in concorso al Festival di Cannes 2013.



di Andrea Raciti

Voto: *****

Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: P. Sorrentino,U. Contarello
Produzione: F. Cima, N. Giuliano
Interpreti principali: T. Servillo, C. Verdone, S. Ferilli
Genere: Grottesco
Anno: 2013

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Totò che visse due volte: un mondo senza speranza






Molto prima che l'uno presentasse a Venezia il magnifico e acclamato È stato il figlio e l'altro tornasse al documentario con Io sono Tony Scott e Belluscone, e che i toni della loro poetica si ammorbidissero, Daniele Ciprì e Franco Maresco si erano presentati come i registi più furiosi, "anarchici", incontrollabili e terribili che il cinema italiano avesse potuto partorire. Palermitani d'origine, i loro primi passi avvennero nel mondo della televisione, ma la loro carriera sul piccolo schermo non è fatta d'oro, pailettes, nani e ballerine e musiche accattivanti. Passa attraverso una serie di corti mandati in onda su Rai3 in un curioso programma di nome CinicoTv. A chi legge, basterà cercare il nome della trasmissione per trovare su Youtube le tracce di quella geniale e sconvolgente creatura, per fare la conoscenza di personaggi quali il petomane Giuseppe Paviglianiti, il folle Natale Lauria, il minorato Paletta e i disgustosi Pietro e Carlo Giordano. Di che si tratta? Di uno spettacolo di freaks, di personaggi degradati esposti in tutte le loro deformità e perversioni agli occhi dello spettatore sullo sfondo di un paesaggio desolato immortalato in bianco e nero.
Di episodio in episodio, di provocazione in provocazione, i nostri sbarcano al cinema con un'opera prima Lo zio di Brooklyn. Ammettiamolo, niente di speciale, per molti versi la  riproposizione di quanto già visto negli sketch di CinicoTv, salvo qualche brillante trovata. Nel 1998, però, arriva il capolavoro, il film di cui si intende parlare in queste righe: Totò che visse due volte. La sua fama è legata ai guai giudiziari che lo videro protagonista e al furioso dibattito sulla censura che ne seguì, arrivato finanche in Parlamento, con una foga paragonabile solo a quella con cui l'Italia moralista e piccolo-borghese degli anni '60-'70 provvedeva a bloccare i film di Pasolini.
Cos'è questo Totò che visse due volte?
Si tratta di un trittico. Nel corso di un'ora e mezza si snodano tre storie: nella prima, Paletta, un minorato mentale, oggetto di scherno dei ragazzi del paese, tenta disperatamente di procurarsi il denaro per avere un rapporto con una prostituta; nella seconda, Fefè, un vecchio disgustoso e miserabile, fa i conti con la morte del suo amante, il ricco Pitrinu; nel terzo, si assiste ad una curiosa rappresentazione dei giorni della Passione di Cristo, con protagonisti un Messia Salvatore (chiamato per comodità "Totò") vecchio e stanco, e un boss mafioso, tale don Totò,  a lui uguale nel fisico. Scena finale, una triplice crocefissione sulle note del Wir setzen della Passione di San Matetto di J.S. Bach.
L'impressione che si ha nel vedere Totò che visse due volte è quella di annegare in un oceano di melma. Allo spettatore non è concesso alcun respiro, nessuna speranza. La fotografia, di uno splendido bianco e nero, mostra un paesaggio siciliano simile ad un campo di battaglia: fangoso, arido, ridotto in macerie, popolato da creature al di là dell'umano e che tuttavia colpiscono nella loro straziante natura. Si vedono perenni affamati ricorrere a sotterfugi pur di addentare pane ammuffito e ricotta, vecchiette intente a snocciolare rosari, erotomani ossessionati dal sesso che arrivano finanche a tentare di accoppiarsi con delle statue, angeli violentati da energumeni, handicappati pestati e ridotti a fenomeni da baraccone. E si assiste impotenti a tutto questo, in una spirale di continua e desolante degradazione. Non ci si illuda che in mezzo ai sassi di questo squallido deserto possa nascere un fiore: nel mondo di "Totò" è negato spazio pure alla morbidità del femminile. Le donne sono infatti interpretate da uomini travestiti. Non per restaurare una convenzione del teatro classico, nè tantomeno per chissà quale trasgressione. Semplicemente perchè in un mondo che va verso l'autodistruzione e l'affossamento nel materiale, verso lo sgretolamento organico, orbato di qualunque richiamo spirituale e sentimento, non può esservi spazio per la donna, per il delicato, per il bello. Il sesso non è un atto fine a se stesso, è l'unica ragione di vita dei personaggi, che magari non ne traggono nemmeno piacere; è un atto meccanico, sporco, rude, vomitevole, che passa dalla violenza alla prostituzione alla zoofilia come niente fosse fino ad arrivare ad una delle scene più disperate, quella in cui un matto violenta una statua della Madonna (ben si capisce come si sia invocata la mannaia della censura). Ebbene, anche in questo non c'è alcun gusto trasgressivo, non c'è il furore di uno sterile boutade. Negli atti convulsi del personaggio, nell'espressione di un volto segnato, si legge un grido d'aiuto, nei suoi occhi rovesciati la disperazione. Dinanzi alla fame, poi, l'uomo è disposto a tutto, pure a inventarsi di amare un proprio simile, di simulare una passione, di tacere il proprio disgusto per approfittare della buona fede dell'altro. Si è di fronte ad un mondo allo sfascio, privo di valori, privo di una guida, della capacità di vedere altro che non sia materia, sangue, feci e fluidi. L'uomo affonda, fa a pezzi quanto rimane della sua capacità di amare, di elevarsi spiritualmente e razionalmente, annienta ragione e religione, rifugiandosi nella cinica e totalizzante soddisfazione delle proprie pulsioni o in una paralizzante pazzia. In poche parole, nel mondo di "Totò" echeggia da ogni parte il nietzscheiano "Dio è morto!". E ciò che è peggio, è che la ventata di forte nichilismo che pervade ogni singola scena del film non ha via d'uscita, nemmeno il delirio di una volontà di potenza. Esiste solo la più infima e selvaggia sopraffazione, ben incarnata tanto nelle figure degli energumeni stupratori quanto (soprattutto) nei mafiosi che affollano il terzo e ultimo episodio, il più esplicativo. Qui, persino il Redentore ha rinunciato a salvare  il mondo. Non nutre e non infonde speranza, va in giro a dispensare miracoli come un banale guaritore, mette su una grottesca ultima cena nella quale gli apostoli sono interessati soltanto a mangiare e a seguire il balletto di una prostituta. Nessuno ascolta il nostro vecchio e bisbetico Messia, neanche quando tira fuori delle parole più "dolci" e sensate, lo si chiama solo per averne un miracolo usa e getta. E alla fine, viene dissolto in una vasca d'acido dal boss locale.
Il tutto è un pugno continuo allo stomaco dello spettatore, perfetto esteticamente nel suo cozzante equilibrio tra un brutto ammorbante e attimi di sublimazione, commovente nel connubio di immagini e musica, dalla tecnica impeccabile e interpretato da un cast di persone qualunque che strazia il cuore: dalla dolorosa espressività del minorato Marcello Miranda all'avvizzito Salvatore Guttuso. Volessimo ricorrere alle parole che Emilio Praga usò a proposito de I fiori del male, Totò che visse due volte è "una bestemmia cesellata nel diamante", uno spettacolo grottesco, cattivo, cinico, privo di qualunque speranza di salvezza, in cui la degradazione fa da padrona, blasfemo e abbandonato alla disperazione, in cui echeggia la lezione del Pasolini di Accattone, nella descrizione della miseria e persino nella scelta della musica, e dell'orrore di Salò.


Voto: ****



di Pippo Di Mauro

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Mulholland drive. Follia, Black Humor, Grottesco e di nuovo follia.







Prendiamo innanzitutto inquadrature frenetiche da trompe-l’oeil: v'è un'inquieta ansia che ritorna, cadenzata da lievi momenti tarantiniani, a sottolineare e innalzare il surrealismo malvagio di Lynch.

C’è una musica che disturba, gli stessi rombi e tuoni che sembrano soffocarti in Eraserhead o in "The Inland Empire".
La scena si muove irrequieta e si alterna risultando in una profonda dispercezione.
L'amata follia è di nuovo messa a nudo dalla non corrispondenza di fondo tra sorrisi nevrotici, sole e tumulti inquietanti in sottofondo.

Lungi dal dare una spiegazione chiara al linguaggio onirico/imagistico del regista, mi sembra giusto guardare più da vicino il tema del "film nel film", il meta-film, molto caro al cinema di David Lynch. è come se si fosse partecipi di due mondi:
Il primo è la simbologia cui il nostro inconscio ci sottopone, che si riversa in un surrealismo onirico capace di risvegliare inquietudini e paure recondite nello spettatore. 
Il secondo è il banale mondo grigio della realtà.
Il film segue il procedimento quasi di una tragedia greca, nel senso che i personaggi esperiscono poco a poco il mondo malvagio e incredibile dell'interiorità fino a raggiungere stati di allucinazione ostili, ribelli, pazzi. Poi, la liberazione, che non assomiglia tanto ad un guadagno o ad una catarsi ma piuttosto a una rassegnazione epicurea nei confronti dell’incomprensibile.
Se negli altri lavori regna però il disequlibrio totale, tale che lo spettatore è calato a forza nel mondo malato della psiche e delle paure, in questo vi sono degli stacchi, delle attese, degli attimi di semplice azione quasi comica che avvicinano lo spettatore, lo tranquillizzano prima di schiacciarlo sotto il ponente tragico dell'interiorità.

Lorzo 94

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L'Udienza: ossia il lato kafkiano della Chiesa






Tra i recenti prodotti del cinema italiano balzati agli onori della cronaca, vi è l’ultima fatica di Nanni Moretti, Habemus Papam. Vuoi la notorietà di cui il Nanni gode da tempo presso i circoli intellettualistici dei critici cinematografici, vuoi perché il suddetto regista, nel bene o nel male, resta uno dei pochi a scostarsi dal modello “vacanzieri deficienti – coppie scoppiate – adolescenti in tempesta ormonale” che ormai domina in sala (a parte le rare eccezioni di un Sorrentino, un Tornatore, un Salvatores, per fare qualche esempio, o i recenti A.C.A.B e Diaz) e ad esprimere un tipo di cinema tutto suo, il film ha ottenuto il riscontro positivo della critica, italiana e internazionale. Con buona pace della cricca di radical-chic e pseudo-intellettuali che ammorbano le pagine della critica cinematografica, Habemus Papam è stato ritenuto un film di grande impatto, con profonde spinte etiche (?), una delicata analisi dell’animo umano e un ottimo sguardo sul potere della Chiesa.
Peccato che l’unico film italiano che si sia soffermato sul potere ecclesiastico e sulla sua forte ritrosia a passare dalla parte dell’homo homini homo, risalga al 1972. Si tratta de L’udienza di Marco Ferreri.
Il titolo di Maestro si addice perfettamente alla persona di Ferreri, autore di nicchia del panorama italiano e creatore di un cinema “anarchico”, surreale, che trae ispirazione da quel Luis Bunuel, che tanto egli dichiarò di ammirare, producendo opere come La grande abbuffata, Ciao maschio, Dillinger è morto, L’ape regina e La donna scimmia, caratterizzate da un profondo cinismo, una serrata critica ai dogmi e  alla società borghese e consumista (filtrata anche dall’influenza, in parte, di Pier Paolo Pasolini) e da una narrazione surreale e mai banale.
L’udienza è la storia di Amedeo (interpretato da Enzo Jannacci, in una delle sue apparizioni cinematografiche), un giovane settentrionale venuto in Vaticano, perché vuole a tutti i costi parlare col Papa. Non si sa di cosa, né tanto meno egli lo rivelerà nel corso del film: sta di fatto, che vuole incontrare il Santo Padre a quattr’occhi e, a differenza di tanti altri turisti e curiosi che si limitano ad un laconico “sì, Santità” o “no, Santità”, discutere con lui. La cosa turba tanto i prelati dell’entourage del Papa, quanto le autorità del Vaticano, in primis il commissario Aureliano Diaz (Ugo Tognazzi), che, non riuscendo ad incriminarlo di nulla, è costretto a lasciarlo libero, ma tenta in ogni modo di tenerlo lontano da un probabile incontro col Papa, ricorrendo ora a minacce, ora all’aiuto di una giovane prostituta (Claudia Cardinale), che lo seduca, convincendolo a desistere. Amedeo però non demorde e si rivolge prima all’eccentrico Principe Donati (Vittorio Gassman), poi all’ambiguo Padre Amerin (Michel Piccoli) e ad una congrega di teologi belgi. Tenta addirittura di forzare la resistenza delle guardie svizzere in Piazza San Pietro. Tra ulteriori tentativi e le manovre delle “eminenze grigie” per allontanarlo, si arriva al surreale e tragico finale.
Prendere di mira il mondo delle istituzioni ecclesiastiche e la religione è un’operazione fin troppo facile. Lo dimostrano tanto la pseudo-satira libertaria, tanto la fiammata di “odio” disperato e ribelle di chi oggi si proclama ateo o anticlericale per moda o per partito preso (quando magari non sa nemmeno darne una spiegazione coerente). Solitamente basta prendere un prete grasso o dalla sessualità repressa e il gioco è fatto. Ferreri, che nel suo cinema non provoca mai a vuoto, sa bene di toccare un punto delicato e di dover andare oltre la semplice satira più o meno graffiante, e mostra allora una vicenda strappata a qualunque briciolo di umanità, “cattiva”, beffarda, oscura fino alla fine. Gli elementi per mettere su una storia efficace non gli mancano. Nel 1972, vige il pontificato di Paolo VI, quel papa che, nel raccogliere l’eredità di Giovanni XXIII, a cominciare dal Concilio Vaticano II (discutere dell’efficacia o meno del quale, tanto da credenti, quanto da non credenti, è qui inopportuno), si mostrò molto più di transizione che il suo predecessore. ’72 significa, indirettamente, ’68, e prima ancora, la primavera ideologica degli anni ‘60 che finì col condizionare, tra vittorie e fallimenti, buona parte della mentalità italiana dell’epoca successiva al secondo dopoguerra. E questo finisce col coinvolgere anche il campo religioso. Il breve pontificato di Giovanni XXIII (morto nel 1963) fu segnato da una profonda apertura nei confronti del suo tempo. Pur nel tradizionale conservatorismo delle istituzioni ecclesiastiche, diede inizio ad una campagna di rinnovamento all’interno della Chiesa, tentando di svecchiarla dai molti formalismi che fino ad allora l’avevano contrassegnata, rendendola così distante dall’uomo (operazione che, nella storia recente, è stata ripetuta sotto altre forme solo da Giovanni Paolo II) In poche parole, il suo pontificato fu attraversato da una lieve ventata di “modernismo”, che Paolo VI tentò di riprendere, riscontrando però la chiusura degli ambienti vaticani. È questo il tema che finisce col dominare il film di Ferreri: il suo occhio si sofferma sulla struttura secolare, di potentato, di un’istituzione idealmente vicina al cuore dell’uomo eppure chiusa a riccio su se stessa, incapace di aprirsi realmente alla miseria altrui, alla cura degli altri, all’ascolto nei confronti dei fedeli, dominata dalla burocrazia e dal timore di perdere un potere che rimane fine a se stesso: in poche parole, una Chiesa “politica”. Ne emerge il quadro impietoso di una Mater che non è accogliente o pia, ma fredda e distante, adornata d’oro, profumata d’incenso e arricchita di parole echeggianti di vana spiritualità, quello che, riflettendo sulle parole evangeliche, risulta essere un “sepolcro imbiancato”. Molto simbolicamente, con un tocco di pura genialità, allora, la macchina da presa si sposta su un personaggio anonimo, nella storia. Siamo a metà film. A seguito di un suo ennesimo, disperato assalto, Amedeo è stato forzatamente rinchiuso in un convento-prigione, insieme ad altri “pericolosi libertari” (uno di essi, tanto per fare un esempio, è un monaco sostenitore della tanto discussa “teologia della liberazione”). Qui, incontra un vecchietto, tale Giovanni Rossi. Qual è l’eccezionalità in tutto ciò? La sua somiglianza, tanto fisica, quanto comportamentale, col defunto Giovanni XXIII. Fino alla sua ultima apparizione, il personaggio mostra nei confronti di Amedeo quell’umiltà, quella gentilezza, quello spirito di fratellanza che gli è stato negato di ricevere tra le mura del Vaticano. E cosa più importante, uno spirito paterno, lo stesso che Amedeo sembra ossessivamente ricercare sin dall’inizio: si potrebbe quasi dire che egli veda nella figura del Papa un vero padre e che voglia incontrarlo, spinto dalla voglia di abbracciare una figura vicina, calda, pronta a tendere la mano, a mostrarsi degna del titolo tanto di vicario di Cristo, quanto di “Santo Padre”. In ciò, Amedeo sarebbe il simbolo di un’umanità misera, abbandonata a se stessa dal potere e che, disperata, va alla ricerca di padri che permettano loro di risollevarsi e indichino loro la via. Che la scelta sia la Chiesa, rende il tutto ancora più significativo, in quanto essa, più d’ogni altra organizzazione umana, dovrebbe condurre alla liberazione dell’uomo dalle catene della schiavitù e dell’ingiustizia terrena, elevandolo al Padre per eccellenza, ossia Dio. Ferreri (anticlericale, ma non ateo fino in fondo) si rende conto di come invece un profondo nichilismo, l’assenza di vera spiritualità e l’oscura fascinazione del potere dominino le alte sfere degli ambienti ecclesiastici, soffermandosi sull’aspetto più inquietante della macchina del potere, ossia la burocrazia: Amedeo è, infatti, sballottato da un ufficio all’altro in un’insensata, interminabile spirale di intricati giochi di potere: l’unico a commuoversi per lui è un teologo belga, interpretato da Alain Cuny, cui il protagonista sussurra il motivo dell’udienza.. Nasce così una sceneggiatura che spazia da Kafka a Bunuel, in una curiosa e riuscitissima unione tra opere come Il castello e Il processo (per molti versi, la scena finale ricorda il racconto Alle porte della legge) e L’angelo sterminatore, in un’atmosfera surreale, graffiante, se vogliamo sconvolgente: da una curiosa lavanda dei piedi della Cardinale allo stravagante nobile Gassman, all’esame nella gendarmeria del Vaticano, fino alla scena finale, una cinica ringkomposition che non chiude la storia, ma la riapre, e chissà, forse con esiti ancora più tragici. Lo sguardo allucinato del regista si muove attraverso le aure ovattate di chiese, conventi, portici, di palazzi dimora di potenti che affidano il loro successo alla vicinanza con la Chiesa, la dolciastra atmosfera dell’appartamento in cui la Cardinale tenta di distrarre Amedeo, offrendosi a lui anima e corpo (ma soprattutto corpo), e tra le architetture imponenti di Piazza San Pietro. Ogni cosa sembra chiudersi su se stessa e soffocare tanto il protagonista, quanto lo spettatore, facendo emergere, attraverso le immagini, una maschera di spietato cinismo frammisto ad istanti di sincera commozione e partecipazione alle sventure umane. Il tutto senza mai annoiare, in un clima che si muove tra momenti volutamente comici e ammiccanti, altri drammatici e ricchi di amarezza. Il ricchissimo cast non viene meno alle promesse, si dimostra affiatato e calza a pennello ogni ruolo.


di Pippo Di Mauro


VOTO: ****

Regia: Marco Ferreri
Sceneggiatura: Marco Ferreri
Interpreti principali: Enzo Jannacci, Ugo Tognazzi, Claudia Cardinale, Vittorio Gassman, Michel Piccoli, Alain Cuny
Genere: drammatico
Anno: 1972

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Cesare Deve Morire: arte e redenzione



Quando si parla di sperimentalismo, non necessariamente bisogna pensare ad una sorta di salto a occhi chiusi nel vuoto, ad un viaggio verso ''territori'' inesplorati in qualunque ambito artistico, anzi molte volte con questo termine possiamo riferirci alla fusione e la conseguente ripresa di stili, modi di rappresentazione più o meno illustri del passato, tesi però verso nuovi obiettivi. Con questo Cesare Deve Morire, i fratelli Taviani ( Padre Padrone, Kaos, Tu ridi) sembrano seguire proprio questa forma di sperimentalismo. 
Il film infatti è stato definito un docu-film, poichè riprende le prove e la messa in scena del Giulio Cesare di W. Shakespeare, di un gruppo di attori se vogliamo non convenzionale: infatti, gli interpreti di questo dramma storico sono i carcerati reclusi nel settore di massima sicurezza di Rebibbia, diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli. Tutti gli attori-carcerati sono condannati a pene che ammontano a diversi anni di carcere o all'ergastolo stesso, avendo compiuto gravissimi reati, fra i più disparati. Veniamo a sapere durante i provini degli stessi carcerati per entrare a far parte del cast, le loro generalità, il reato commesso e il tipo di pena da scontare. Un realismo estremo contraddistingue le prime sequenze del film: veniamo infatti direttamente a conoscenza delle informazioni basilari riguardo a dei pluriomicidi, spacciatori, mafiosi. Già dai provini risulta assolutamente evidente dai volti, dalle parole e dai gesti di questi individui, il loro stato di emarginazione, abbrutimento, disperazione. Ma queste sequenze danno corpo semplicemente all'incipit, il film infatti non ha come scopo principale quello di documentare una condizione umana ormai degradata. Il film documenta una presa di coscienza, un rinnovamento morale di un gruppo di carcerati, semplicemente riprendendo le prove di ogni scena del dramma, il costante studio delle battute soprattutto da parte degli attori protagonisti, gli interpreti di Bruto, Cesare e Cassio, fino ad arrivare alle scene finali in teatro della battaglia di Filippi e del suicidio dei due cesaricidi. Non è un Giulio Cesare convenzionale quello interpretato dai carcerati di Rebibbia: infatti, ogni attore recita le battute nel proprio dialetto di origine, chi in napoletano, chi in romanesco, con brevi passaggi in italiano. L'influenza del neorealismo italiano è evidente da questi primi particolari: a recitare non sono attori professionisti, ma gente ''della strada'', carcerati in questo caso. Non meno palese è il retaggio di Pasolini, per cui gli attori ,presi dalla strada, parlano il loro dialetto, per esprimere in modo autentico, immediato, vero, pur mantenendosi nella finzione, le passioni che emergono dalle loro parole, come nei film del regista-scrittore romagnolo. Man mano che si va avanti con le prove delle scene, una convinzione sempre più forte comincia a insinuarsi fra gli attori-carcerati, ciò che essi stanno facendo e dicendo solo per finta, non li ha semplicemente aiutati ad uscire da una condizione da reclusi, emarginati: questi individui sono entrati in una dimensione fino ad allora a  loro sconosciuta, l'arte. I carcerati così, scoprono la libertà espressiva di cui l'arte è garante; cominciano a rendersi conto che quelle stesse passioni di cui quei personaggi furono portatori restano immortali grazie alla rappresentazione teatrale, grazie al loro sforzo in questo caso, di far rivivere quelle passioni. In definitiva, la scoperta dell'arte provoca nei carcerati la presa di coscienza di una superiore forma di libertà; cosicchè si ha la sensazione che ogni scena del dramma shakespeariano recitata dal gruppo di carcerati arrivi ad assumere un'aura epica, solenne: ogni dialogo fra i congiurati, ogni monologo, rappresenta nella finzione del dramma quanto per gli stessi carcerati, un passo avanti verso una sorta di ''avvaloramento'', ma soprattutto di pura redenzione morale. Quale tragedia avrebbe potuto esprimere meglio questi sentimenti, se non il dramma per antonomasia sulla lotta titanica contro il tiranno per la conquista della libertà, il Giulio Cesare? E' cosi che in questo film, grazie a questo particolare esperimento (neo)realista di teatro nel cinema, emerge dalla finzione scenica la pura verità sulla natura ancora profondamente e disperatamente umana di questi carcerati, che arrivano a identificarsi e immedesimarsi più che nella mente, nell'anima stessa dei loro personaggi, di Cesare, di Bruto, di Cassio, di Antonio. Ecco che nel film sorge spontanea la riflessione sul significato della recitazione, dell'interpretazione: non si tratta della semplice identificazione con una maschera fittizia, ma essa è tale se viene a crearsi l'amore vero e proprio per un personaggio, una condivisione di passioni e ideali. Il carcerato che interpreta Cesare, arriva a considerare il suo personaggio ''un genio'', l'interprete di Bruto prova con impegno maniacale le sue battute tanto è rimasto sedotto dalla tragica vicenda del cesaricida, in cui sembra quasi rivivere fatti di sangue di cui lui stesso fu testimone o protagonista. L'esperienza artistica-teatrale cambia radicalmente questi uomini, ma dopo la fine della rappresentazione teatrale, gli ''attori di Rebibbia'' tornano nelle loro celle, carichi di una nuova, tragica consapevolezza. Infatti, l'interprete di Cassio, rinchiuso nella sua cella, dopo qualche secondo di silenzio amaramente afferma:'' Da quando ho conosciuto l'arte, questa cella è diventata una prigione''. La libertà interiore raggiunta grazie all'arte, ha reso pienamente consapevoli i carcerati della loro condizione, in cui sembra ormai impossibile esprimere se stessi a causa della reclusione. Questi uomini si rendono conto dell'altra faccia dell'arte, la sua natura illusoria, fittizia, appunto perchè libera creazione, ma che per qualunque uomo, e più che mai per condannati all'ergastolo o ad anni di prigione, può diventare più reale e straordinaria della vita stessa.
Tutto ciò viene espresso stilisticamente da uno splendido bianco e nero per tutte le scene del film ambientate nel carcere, che esprime perfettamente il senso di prigionia, aridità, inquietudine, e che nei moltissimi primi piani e nei campi lunghi delle scene di gruppo, come la riunione per il giuramento dei congiurati e dell'assassinio di Cesare, dona anche l'atmosfera di tragicità e maestosità per un Giulio Cesare girato direttamente in carcere per giunta.
Questa pellicola pertanto, raggiunge per questi motivi un livello di eccellenza tale che ha pochissimi paragoni nel cinema italiano di questi ultimi anni, poichè la potenza visiva e comunicativa del film grazie alla sintesi di vita e arte, di verità e finzione, di Shakespeare e cinema, ha dato vita ad un'opera unica nel suo genere. Cesare deve morire è stato il film italiano scelto per partecipare agli Academy Awards del 2013 fra le pellicole che concorrono per aggiudicarsi l'Oscar al miglior film straniero. Il cinema italiano rappresentato dai precedenti Gomorra scelto nel 2009 e Terraferma nel 2012, non ebbe attribuita la statuetta, nonostante l'indiscutibile qualità superiore di queste pellicole, ma forse, il film dei Taviani riuscirà finalmente a ridare un po' di lustro ufficiale al nostro martoriato cinema, dopo l'ultimo Oscar a La Vita è Bella di Benigni nel '99.

di Andrea Raciti


VOTO: *****

Regia: Paolo e Vittorio Taviani
Sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, Fabio Cavalli
Produzione: Kaos Cinematografica, Rai Cinema
Interpreti principali: Giovanni Arcuri, Cosimo Rega, Salvatore Striano
Genere: docu-film, drammatico
Premi: Orso D'Oro al Festival di Berlino, 5 David di Donatello
Anno: 2012

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