Molto prima che l'uno presentasse
a Venezia il magnifico e acclamato È
stato il figlio e l'altro tornasse al documentario con Io sono Tony Scott e Belluscone,
e che i toni della loro poetica si ammorbidissero, Daniele Ciprì e Franco
Maresco si erano presentati come i registi più furiosi, "anarchici",
incontrollabili e terribili che il cinema italiano avesse potuto partorire.
Palermitani d'origine, i loro primi passi avvennero nel mondo della televisione,
ma la loro carriera sul piccolo schermo non è fatta d'oro, pailettes, nani e
ballerine e musiche accattivanti. Passa attraverso una serie di corti mandati
in onda su Rai3 in un curioso programma di nome CinicoTv. A chi legge, basterà cercare il nome della trasmissione
per trovare su Youtube le tracce di quella geniale e sconvolgente creatura, per
fare la conoscenza di personaggi quali il petomane Giuseppe Paviglianiti, il
folle Natale Lauria, il minorato Paletta e i disgustosi Pietro e Carlo
Giordano. Di che si tratta? Di uno spettacolo di freaks, di personaggi
degradati esposti in tutte le loro deformità e perversioni agli occhi dello
spettatore sullo sfondo di un paesaggio desolato immortalato in bianco e nero.
Di episodio in episodio, di
provocazione in provocazione, i nostri sbarcano al cinema con un'opera prima Lo zio di Brooklyn. Ammettiamolo, niente
di speciale, per molti versi la
riproposizione di quanto già visto negli sketch di CinicoTv, salvo qualche brillante trovata. Nel 1998, però, arriva
il capolavoro, il film di cui si intende parlare in queste righe: Totò che visse due volte. La sua fama è
legata ai guai giudiziari che lo videro protagonista e al furioso dibattito
sulla censura che ne seguì, arrivato finanche in Parlamento, con una foga
paragonabile solo a quella con cui l'Italia moralista e piccolo-borghese degli
anni '60-'70 provvedeva a bloccare i film di Pasolini.
Cos'è questo Totò che visse due volte?
Si tratta di un trittico. Nel
corso di un'ora e mezza si snodano tre storie: nella prima, Paletta, un
minorato mentale, oggetto di scherno dei ragazzi del paese, tenta
disperatamente di procurarsi il denaro per avere un rapporto con una
prostituta; nella seconda, Fefè, un vecchio disgustoso e miserabile, fa i conti
con la morte del suo amante, il ricco Pitrinu; nel terzo, si assiste ad una
curiosa rappresentazione dei giorni della Passione di Cristo, con protagonisti
un Messia Salvatore (chiamato per comodità "Totò") vecchio e stanco,
e un boss mafioso, tale don Totò, a lui
uguale nel fisico. Scena finale, una triplice crocefissione sulle note del Wir
setzen della Passione di San Matetto di J.S. Bach.
L'impressione che si ha nel
vedere Totò che visse due volte è
quella di annegare in un oceano di melma. Allo spettatore non è concesso alcun
respiro, nessuna speranza. La fotografia, di uno splendido bianco e nero,
mostra un paesaggio siciliano simile ad un campo di battaglia: fangoso, arido,
ridotto in macerie, popolato da creature al di là dell'umano e che tuttavia
colpiscono nella loro straziante natura. Si vedono perenni affamati ricorrere a
sotterfugi pur di addentare pane ammuffito e ricotta, vecchiette intente a
snocciolare rosari, erotomani ossessionati dal sesso che arrivano finanche a
tentare di accoppiarsi con delle statue, angeli violentati da energumeni,
handicappati pestati e ridotti a fenomeni da baraccone. E si assiste impotenti
a tutto questo, in una spirale di continua e desolante degradazione. Non ci si
illuda che in mezzo ai sassi di questo squallido deserto possa nascere un fiore:
nel mondo di "Totò" è negato spazio pure alla morbidità del
femminile. Le donne sono infatti interpretate da uomini travestiti. Non per
restaurare una convenzione del teatro classico, nè tantomeno per chissà quale
trasgressione. Semplicemente perchè in un mondo che va verso l'autodistruzione
e l'affossamento nel materiale, verso lo sgretolamento organico, orbato di
qualunque richiamo spirituale e sentimento, non può esservi spazio per la
donna, per il delicato, per il bello. Il sesso non è un atto fine a se stesso,
è l'unica ragione di vita dei personaggi, che magari non ne traggono nemmeno
piacere; è un atto meccanico, sporco, rude, vomitevole, che passa dalla
violenza alla prostituzione alla zoofilia come niente fosse fino ad arrivare ad
una delle scene più disperate, quella in cui un matto violenta una statua della
Madonna (ben si capisce come si sia invocata la mannaia della censura). Ebbene,
anche in questo non c'è alcun gusto trasgressivo, non c'è il furore di uno
sterile boutade. Negli atti convulsi del personaggio, nell'espressione di un
volto segnato, si legge un grido d'aiuto, nei suoi occhi rovesciati la
disperazione. Dinanzi alla fame, poi, l'uomo è disposto a tutto, pure a
inventarsi di amare un proprio simile, di simulare una passione, di tacere il
proprio disgusto per approfittare della buona fede dell'altro. Si è di fronte
ad un mondo allo sfascio, privo di valori, privo di una guida, della capacità
di vedere altro che non sia materia, sangue, feci e fluidi. L'uomo affonda, fa
a pezzi quanto rimane della sua capacità di amare, di elevarsi spiritualmente e
razionalmente, annienta ragione e religione, rifugiandosi nella cinica e
totalizzante soddisfazione delle proprie pulsioni o in una paralizzante pazzia.
In poche parole, nel mondo di "Totò"
echeggia da ogni parte il nietzscheiano "Dio è morto!". E ciò che è
peggio, è che la ventata di forte nichilismo che pervade ogni singola scena del
film non ha via d'uscita, nemmeno il delirio di una volontà di potenza. Esiste
solo la più infima e selvaggia sopraffazione, ben incarnata tanto nelle figure
degli energumeni stupratori quanto (soprattutto) nei mafiosi che affollano il
terzo e ultimo episodio, il più esplicativo. Qui, persino il Redentore ha
rinunciato a salvare il mondo. Non
nutre e non infonde speranza, va in giro a dispensare miracoli come un banale
guaritore, mette su una grottesca ultima cena nella quale gli apostoli sono
interessati soltanto a mangiare e a seguire il balletto di una prostituta.
Nessuno ascolta il nostro vecchio e bisbetico Messia, neanche quando tira fuori
delle parole più "dolci" e sensate, lo si chiama solo per averne un
miracolo usa e getta. E alla fine, viene dissolto in una vasca d'acido dal boss
locale.
Il tutto è un pugno continuo allo
stomaco dello spettatore, perfetto esteticamente nel suo cozzante equilibrio
tra un brutto ammorbante e attimi di sublimazione, commovente nel connubio di
immagini e musica, dalla tecnica impeccabile e interpretato da un cast di
persone qualunque che strazia il cuore: dalla dolorosa espressività del
minorato Marcello Miranda all'avvizzito Salvatore Guttuso. Volessimo ricorrere
alle parole che Emilio Praga usò a proposito de I fiori del male, Totò che
visse due volte è "una bestemmia cesellata nel diamante", uno
spettacolo grottesco, cattivo, cinico, privo di qualunque speranza di salvezza,
in cui la degradazione fa da padrona, blasfemo e abbandonato alla disperazione,
in cui echeggia la lezione del Pasolini di Accattone,
nella descrizione della miseria e persino nella scelta della musica, e
dell'orrore di Salò.
Voto: ****
di Pippo Di Mauro