Le
pagine della storia del cinema narrano spesso di film che, nonostante le
migliori intenzioni, massicce campagne pubblicitarie e strombazzanti
dichiarazioni e acclamazioni, si rivelano essere putridi aborti anziché rosee e
pimpanti creature. Il "parto artistico" dà simili risultati quando il
film è il frutto di una lunga ed estenuante masturbazione mentale, o quando il
regista si sforza di voler dire più di quanto possa essere in grado. Il caimano di Nanni Moretti (si rassegnino sia l'intellighenzia
cinematografica, sia la massa di indignati, impegnati ecc. che l'hanno esaltato
a scatola chiusa) ne è l'esempio più eclatante. Il caimano è diventato celebre ancora prima di arrivare nelle sale. Motivo? Le
voci che volevano che protagonista del nuovo film di Moretti fosse nientemeno
che Silvio Berlusconi. La risposta del regista non si fece attendere: "non
è un film su Berlusconi". Niente di più vero. Aggiunse poi: "E' un
film sull'Italia del berlusconismo e dell' antiberlusconismo". Niente di
più falso.
La storia è quella di Bruno Bonomo, un produttore cinematografico in crisi
familiare e professionale: la moglie lo ha lasciato e a nessuno interessano più
i B-movie e i trash con cui anni prima tirava avanti. Si presenta per caso,
"venuta da cielo in terra a miracol mostrare", tanto per citare
Dante, una giovane regista, Teresa, col copione di una sceneggiatura, Il
caimano, incentrata su Silvio Berlusconi. Il nostro, spaesato davanti ad un tipo
di cinema a lui sconosciuto e che fondamentalmente avversa, ma intenzionato a
tirarsi fuori dalle cattive acque in cui naviga, si butta nell'impresa, tra
mille peripezie e disavventure.
Nanni Moretti, da anni, strombazza ai quattro venti la necessità di un cinema cosciente, in grado di guardare ai temi socio-politici con scopi
catartici. E il suo, manco a dirlo, a detta tanto dello stesso Moretti, quanto
di certa critica, è il cinema ideale, quello più lucido, il più originale,
"il più" in generale. Fatto fuori il proprio alter ego Michele
Apicella e tralasciando la parentesi de La stanza del figlio, dagli anni '90
Moretti ha dato corpo a delle opere che a suo modo e con uno stile tutto
personale - ma che in fondo non è tanto diverso da quella commedia all'italiana
che sin da Io sono un autarchico dichiara di odiare a morte - si propongono di
analizzare la società, le dinamiche politiche, la crisi di identità, di valori
e d'ideali. Una sorta di (ma anche no!) nuovo Pasolini. Sfortunatamente, quest'ultimo
è morto senza lasciare eredi e Moretti è il sotto-prodotto di un cinema che
tenta disperatamente di essere diverso, pur essendo "più uguale degli
altri". Se, difatti, bastasse mostrare esempi di malcostume per essere
considerati lucidi ed esperti conoscitori della realtà italiana, dovremmo
seriamente rivalutare Neri Parenti e considerarlo il miglior antropologo
attualmente in circolazione.
Il caimano rappresenta il totale fallimento della capacità di analizzare e
comunicare in maniera convincente. Non punge, non affonda e, cosa peggiore, non
spiega. In primis, nella storia di cornice, recupera un cliché, quello delle
difficoltà di lavorazione di un film, che da 8 ½ di Fellini ed Effetto notte di
Truffaut è trito e ritrito affidandosi ad una storia di relazioni pericolanti
tra personaggi patetici e divorati dalle nevrosi, con un Silvio Orlando che
spacca il capello in quattro e tenta di reggere le sorti del film pure quando
condivide la scena con una Margherita Buy fastidiosamente assente (si segnala anche
una serie di inutili camei, quali quelli di Paolo Sorrentino e Tatti
Sanguineti). Poi, cosa ancora più grave, in quelle occasioni che gli sono
concesse per parlare del tema principale, ossia l'Italia berlusconiana, non lo
fa. Si ritira all'angolo come un pugile timoroso e assiste dalle corde,
affidandosi unicamente alle apparizioni macchiettistiche di un Berlusconi
intepretato da Elio De Capitani, ad un altro incarnato da un Michele Placido
che sembra capitato lì per caso, ad immagini di repertorio (Berlusconi vs
Schulze) e infine ad un processo con Moretti nei panni di Berlusconi. E anche
qui, dove più il tafano dovrebbe pungere, si ha la dolorosissima impressione
che non vi sia alcuno sforzo nel raccontare una delle pagine drasticamente più
importanti dell'Italia degli ultimi trent'anni. Almeno su una cosa, però,
Moretti era stato sincero: non è un film su Berlusconi. Ottimo. I guai
cominciano quando ci si rende che non è nemmeno un film su berlusconismo e
antiberlusconismo. Manca il martellante introdursi della televisione nelle case
degli italiani (soltanto accennato), mancano i volti della gente
"invaghita" del fenomeno mediatico, manca la degenerazione sociale e
l'appiattimento politico del paese, manca quell’Italietta cui allude il produttore
(Jerzy Stuhr) fatta di arrivisti, arrampicatori sociali pronti a prendere la
scorciatoia, di puttane, corrotti, raccomandati, di moralisti della domenica,
di intellettuali da salotto, di nani e ballerine, di politicanti da strapazzo,
di giornalisti “giornalai”… insomma manca l’Italia nella quale agisce il
“caimano”, manca lo psicotico e grottesco teatro fatto di paranoie, apparizioni
patinate e sterile opposizione che ha contraddistinto tutta la parabola
berlusconiana, mancano toni veramente feroci ad una satira morta che non riesce
in alcun modo a mettere alla berlina. Mancano persino la protesta e l’impegno
civile d’opposizione: Teresa, interpretata da Jasmine Trinca, è l'unica che
praticamente la incarni, ma assume i toni di un angelo scolorito che ripete le
stesse frasi e gli stessi concetti senza nemmeno troppa convinzione e non regge
l’allegoria della gioventù senza speranze, non quando si assegna ad un simile
personaggio il compito di fare da “grillo parlante”. Si arriva, com'è e come
non è, alla scena finale, quella del processo a Berlusconi, l'unica che Bonomo
riesca a girare, oltre che l'unica che conferisca un po' di dignità a questo
prodotto: nell'attacco di Moretti/Berlusconi alla magistratura e la protesta
finale con tanto di lancio di bombe carta contro il tribunale, si scorge quel
pizzico di ferocia e di lucidità che era mancato per tutto il film, laddove
finalmente il grottesco personaggio è messo a nudo nella sua viscidità e nella
noncuranza della sfida perenne alle istituzioni che pretende di rappresentare.
Ma si ripete: è un eco nel nulla. Non bastano 9 minuti per considerare
brillante quella che è la tortuosa operazione di un regista che continua a
considerarsi il migliore in circolazione, ma tratta un argomento tanto
importante da immaturo, facilone, imborghesito. Il caimano è vuoto, mancante
tanto nella parte destruens, quanto nella costruens, non ha nulla da offrire al
suo pubblico, neanche un serio spunto di riflessione. In poche parole, proprio
il Moretti che accusava D'Alema in "Aprile", non riesce a dire niente
che sia "de sinistra". Lo pseudo-intellettuale che fa appello
all’impegno sociale di una vecchia gloria come Gian Maria Volontè (il
“principe” degli attori di sinistra) è un piccolo borghese come tanti confinato
nella propria immensa presunzione, egoismo e mediocrità. Non vale più nemmeno
la scusa dell’auto-ironia. Sul banco di prova, il re è nudo. E non basta la
cricca compiacente dei suoi fan a coprirlo.
di
Pippo Di Mauro
Regia: Nanni Moretti
Cast: Silvio Orlando, Margherita Buy, Jasmine Trinca, Michele Placido, Jerzy
Stuhr, Nanni Moretti
VOTO: **