To Rome with Love: elogio della demenza targato Allen







Per l'affermazione che sto per fare forse non sarò considerato un ''purista'' di Woody Allen, ma devo ammettere che gli ultimi lavori del regista newyorkese, da Match Point a Basta che funzioni, fino al recentissimo Midnight in Paris, possono essere ritenuti dei piccoli gioielli, opere d'arte alla maniera di Allen, anche se non intrise della vena geniale dei tempi d'oro del vecchio ''umorista''. I temi della colpa impunita, dell'assenza di una morale nel mondo, dell'ambizione nella scalata sociale, il problema del dualismo Caso/Necessità, e altre tematiche fondamentali care ad Allen sono trattate con il solito stile inconfondibile, con leggerezza, brio e soprattutto grande intelligenza e sensibilità. L'amata musica jazz, Cole Porter in Midnight in Paris, ma anche la musica classica, Verdi e Rossini in Match Point, erano più di un semplice accompagnamento mentre si susseguivano le inquadrature dei luoghi celebri delle capitali europee celebrate da Allen, da Londra a Parigi a Barcellona (che non sarà la capitale ma è un simbolo più che celeberrimo della Spagna moderna). Beh, scordatevi tutto ciò (o quasi) per To Rome with Love. La bulimia creativa di Allen lo ha fatto approdare in Italia, con l'intenzione ,per cosi dire, ''ufficiale'' di celebrare il nostro Paese e, in particolare, Roma. Woody si ispira vagamente alle novelle del Decameron di Boccaccio per questo film a episodi, quattro storie, palesemente ispirate alla commedia sexy italiana degli anni '70, come il famoso Sessomatto (1973) di Dino Risi. Woody sfrutta la straordinaria location con il solito talento, rendendo anche i monumenti, le strade, gli edifici dell'Urbe quasi dei personaggi come gli altri. Fino a questo punto, niente di nuovo sotto il sole, sappiamo che Woody è stato capace di rendere questa atmosfera anche a Parigi, a Londra e soprattutto a New York. Ma la tragedia che si profila è già annunciata nei primi minuti del film: parte una Nel blu dipinto di blu che andando avanti nella visione si scoprirà più inadeguata che mai, e un vigile introduce le storie che si stanno per svolgere: quattro episodi, uno più sgangherato e banale dell'altro, pieni di stereotipi. Giunto in Italia, a pochi mesi dalla realizzazione di un ottimo film come Midnight in Paris, Allen porta sullo schermo delle storielle frutto di frettolosità nella sceneggiatura, scarso sviluppo dei temi e grossolanità. L'intelligenza e la profondità di cui si parlava prima, vengono qui mandate letteralmente al diavolo, accantonate dal regista, a favore di una comicità di bassa caratura, di una svogliatezza ancora non dimostrata da Allen neanche nelle sue peggiori pellicole del passato. L'episodio con Penelope Cruz è l'emblema dell'assoluto disinteresse di Allen nel dare un senso, non necessariamente logico, ma un qualunque significato, anche estetico se vogliamo come in Manhattan, a questo delirio di comicità scadente, più consona al nostrano ''cinepanettone'' dei Vanzina che a Woody Allen. Il masochismo del newyorkese è tale che opta per gli attori italiani se vogliamo più di moda, ma forse anche più incompetenti del momento: Alessandra Mastronardi (la Eva de I Cesaroni per intenderci...) nel ruolo di una novella sposa apparentemente pudica e santarellina ma attratta dalle star del cinema; Riccardo Scamarcio nel ruolo di un ladro che seduce la Mastronardi; Alessandro Tiberi, nel ruolo del giovane marito della Mastronardi, un borghesuccio schivo, fedelissimo alla moglie,moralmente intransigente, conformista, inibito sessualmente, ma cederà in poco tempo alle grazie della prostituta interpretata da Penelope Cruz, che qui tocca il fondo della sua carriera di attrice. Per gli Italiani si può fare eccezione per gli ottimi Benigni e Albanese, anche se purtroppo è doveroso asserire che, a prescindere dalla pur buona interpretazione, il primo è totalmente fuori contesto, protagonista di un episodio che parte bene ma sfocia nella ripetitività e nella banalità, l'altro invece interpreta un ruolo veramente infelice, una sorta di attore''mandrillo'' che, come non detto, tenta di sedurre la Mastronardi. L'episodio in cui Woody Allen recita nel ruolo di un produttore discografico ormai in pensione che scopre il talento da cantante lirico nel consuocero cercando di farlo sfondare nel mondo dell'opera, è un elogio alla mediocrità e alla mancanza di idee; l'episodio in questione viene reso godibile soltanto dalle solite battute alleniane ('' Se sei in contatto con Freud, fatti ridare i miei soldi!''). Solo nell'episodio con Alec Baldwin e Jesse Eisenberg sembra esserci un pur minimo tentativo del regista di ricordare a tutti che, fra i motivetti ridicoli della colonna sonora e il susseguirsi di vicende di rara potenza demenziale, è proprio Woody Allen a dirigere tutta la baracca: in questa vicenda un giovane architetto americano è fortemente attratto da una strana radical chic molto frivola con cui ha una relazione tradendo la fidanzata. Tutti i personaggi però sono continuamente alle prese con una sorta di inconscio collettivo rappresentato da un anziano architetto, che li consiglia e discute con loro. Forse Allen ha definitivamente abbandonato le teorie freudiane a favore di quelle jungiane? Probabile, ma tornando al film, l'episodio resta comunque un abbozzo, un esercizio di stile, parzialmente riuscito nel complesso.
Purtroppo, per quanto ci si possa sforzare di interpretare questa pellicola come satira dei corrotti costumi della borghesia italiana, critica a certo cinema nostrano e ai mass- media ed elogio ( che si ferma al piano puramente estetico) della città di Roma, purtroppo la sceneggiatura sgangherata da cui scaturiscono storielle di scarso spessore e povere di contenuti, non può che decretare il fallimento di Allen, la cui grande forza espressiva trova quasi sempre in una solida e ben congegnata sceneggiatura la sua migliore manifestazione.
Purtroppo e per fortuna, Allen realizza mediamente un film all'anno ininterrottamente dal 1966, ha recentemente dichiarato che lo ritiene il miglior sistema per esorcizzare il pensiero della morte, per lui, ormai quasi ottantenne, l'arte cinematografica è taumaturgica, e il suo pubblico, soprattutto europeo, ha la certezza che annualmente Allen sfornerà un' altra pellicola. Ma, naturalmente, con questi ritmi di produzione filmica che accorciano drasticamente la distanza fra una pellicola e l'altra, è perfettamente comprensibile che ci scappi qualcosa di superfluo. Dispiace, naturalmente, che Allen abbia toppato proprio in occasione del film italiano, da cui si evince che il newyorkese consideri il nostro Paese come una sorta di circo di vecchi stereotipi senza vita (certo, l'immagine dell'Italia nel mondo dà adito a queste teorie...), nonostante la profonda ammirazione di Allen per i grandi registi come Fellini, per la nostra musica e per la nostra arte, quindi in generale, giustamente, per il nostro illustre passato.
Si consiglia ad Allen una vacanza di almeno 2-3 anni, affinchè ritorni presto con un film che lo aiuti veramente ad allontanare lo spettro della morte, che Allen sembra addirittura invitare a casa sua più che cercare di tenerlo lontano realizzando film come To Rome with Love.

di Andrea Raciti


VOTO: **


Regia: Woody Allen
Sceneggiatura: Woody Allen
Produzione: Letty Aronson
Interpreti principali: Woody Allen, Roberto Benigni, Alec Baldwin, Jesse Eisenberg, Penelope Cruz, Alessandra Mastronardi, Alessandro Tiberi.
Genere: Commedia
Anno: 2012


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Classifica dei 10 migliori attori americani di sempre secondo ''THE FINAL CIAK!''




































Nella seguente classifica verrà indicato fra parentesi, accanto al nome,il ruolo migliore interpretato da ciascun attore.


La Classifica:




1) Marlon Brando (Vito Corleone ne ''Il Padrino'')- Robert de Niro (Jake La Motta in ''Toro Scatenato'')
2) Jack Nicholson (Jack Torrance in ''Shining'')
3) Al Pacino (Tony Montana in ''Scarface'')
4) Burt Lancaster (Fabrizio Salina ne '' Il Gattopardo'')
5) John Wayne (Ethan Edwards in ''Sentieri Selavaggi'')
6) Cary Grant (Roger Thornill in ''Intrigo Internazionale'') 

7) James Stewart (John Ferguson in ''La Donna che Visse Due Volte'')
8) Clint Eastwood (Frankie Dunn in ''Million Dollar Baby'')
9) Leonardo Di Caprio (Billy Costigan in ''The Departed'')
10) Tom Hanks (Forrest Gump in ''Forrest Gump'')






di Andrea Raciti

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''LA TRAGEDIA DI UN UOMO RIDICOLO'' ossia: Tognazzi, Bertolucci e il beneficio del dubbio




Ugo Tognazzi è stato uno dei mostri sacri del nostro cinema, una delle maschere più salde della commedia all’italiana e fra gli artisti la cui vita pienamente corrisponde al perfetto connubio di vita e arte. Tanto per citare alcuni titoli, la sua ricca filmografia si compone di Amici miei, Il vizietto, La grande abbuffata, I mostri, Il federale.
Bernardo Bertolucci, proveniente da una famiglia imbevuta d’arte (il padre Attilio è stato una delle nostre ultime glorie poetiche), è uno degli ultimi cultori della settima arte del panorama italiano. Premio Oscar nel 1988, lo ritroviamo attivo in campo internazionale con Ultimo tango a Parigi, L’ultimo imperatore, Novecento, Piccolo Buddha, Il tè nel deserto e il recente The dreamers.
Poco e nulla in comune legherebbe Tognazzi e Bertolucci: eterno gaudente e tendente al disimpegno anche in lavori impegnati il primo, autore intellettuale e impegnato il secondo. Sottile filo rosso ad unirli, un film del 1981, La tragedia di un uomo ridicolo. Inutile chiedere in giro: la critica ne ha quasi del tutto cancellato l’esistenza dalla storia del cinema. E a torto.
Tognazzi veste qui i panni di Primo Spaggiari, un imprenditore del parmense, proprietario di un caseificio, marito di Barbara (Anouk Aimée), una bella donna di origine francese, e padre di Giovanni (Ricky Tognazzi), a detta del quale egli sarebbe solo “un uomo ridicolo”, a causa del suo comportamento da borghesuccio neoarricchito, del carattere gigionesco e dell’incapacità di prendere le cose sul serio. Un giorno, Giovanni viene rapito da un gruppo di terroristi, che chiedono come riscatto un miliardo di lire. Per Primo sarà l’inizio di un dramma oscuro, al quale si uniranno anche le torbide figure di Laura (Laura Morante), fidanzata di Giovanni e operaia nel caseificio, e di padre Adelfo (Victor Cavallo), un prete operaio, entrambi stranamente troppo informati su certi particolari del rapimento. La conclusione sarà spiazzante…
Si diceva: chiedere oggi informazioni su La tragedia di un uomo ridicolo equivale a chiedere ad un musicista informazioni sulla musica greca del V sec. a. C. Molto ingiustamente, questo film è stato schiacciato da certa critica che ha preferito la magniloquenza dei capolavori di Bertolucci e dei suoi primi lavori, quelli più politicamente schierati, mettendo in ultimo piano un lavoro così fine e complesso, che rasenta le vette dell’arte dell’assurdo. La trama di base non è eccezionale: rapimento e riscatto sono temi ricorrenti in migliaia di “gialli”. La novità sta che nel fatto che il rapimento sembra essere un evento quasi marginale nella storia, in cui tutto è visto nell’ottica straniante di Primo Spaggiari, “l’uomo ridicolo” del titolo. Tognazzi interpreta un personaggio quasi pirandelliano, che si trova ad essere uno, nessuno e centomila. Pur nella sua unità corporale e mentale, egli ci viene presentato sotto vari e frammentati punti di vista: padre di famiglia fallito negli affetti, imprenditore assillato dal duro lavoro, borghese contento della meschinità di una vita qualunque, gigione godereccio represso nei piaceri più sfrenati, tiranno per gli operai prossimi al licenziamento, pagliaccio da circo per il figlio, uomo senza qualità per la moglie scossa dal rapimento di Giovanni, persona rispettabile per la propria comunità, modesto provinciale per tanti altri. E nessuno per se stesso. Specchiandosi, ripercorrendo a ritroso la propria vita in monologhi interiori degni di un Italo Svevo, Primo giunge all’amara consapevolezza di essere una nullità, un uomo senza volto e senza personalità, imprigionato in quelle mille maschere che egli e il mondo tutto hanno costruito; e come difesa dall’essere messo a nudo, è riuscito a chiudersi nel caseificio da lui fondato, che è il suo mondo e la sua sola famiglia, ergendo delle barriere simili alle tessere di un domino. Tuttavia, una tessera finisce col far crollare tutto: la sua famiglia, quella carnale s’intende, viene colpita da un evento imprevedibile, il rapimento di Giovanni. E tutto diviene incerto, sfocato: la moglie finisce quasi sull’orlo della pazzia, gente accorre a casa Spaggiari informata e ignorante al tempo stesso, la polizia brancola, i soldi per il riscatto non ci sono, il caseificio è sull’orlo del fallimento… tutte le barriere, una dopo l’altra, finiscono col crollare e Primo Spaggiari, nudo nell’anima, si rivela per quello che è: un uomo ridicolo. Il ridicolo non sorge tanto da un particolare comico. È diretta conseguenza della nullità di quest’uomo, vuoto, quasi privo di reazioni, incapace di auto-determinarsi, imprigionato da una maschera ipocrita e stritolato poco a poco dagli ingranaggi di un mistero che rimane irrisolto anche dopo la ricomparsa del figlio. Sì, perché nonostante altri gliene avessero annunciato la morte, Giovanni torna a casa durante una festa, dopo il fallimento del caseificio paterno (sottrattogli dalla legge e trasformato in cooperativa). L’enigma sembrerebbe ma essere svelato, ma Primo, e con lui lo spettatore, non è in grado di comprenderlo. Nella scena finale, Bertolucci lascia il beneficio del dubbio: forse che sia andata realmente come sembra trasparire dagli sguardi e dalle azioni degli altri o magari c’è dell’altro sotto? La tragedia si trasforma in un teatro dell’assurdo, in cui la marionetta Tognazzi rimane sballottata senza risolversi. Il finale stesso è una sospensione “insoddisfacente”. Quel che è chiaro è che Bertolucci e quel burlone di Tognazzi si compiacciono di far trionfare il beneficio del dubbio, in un film che tutto è fuorché il giallo che inizialmente vorrebbe essere e che man mano si trasforma in un’analisi pirandelliana, se non addirittura freudiana, della coscienza del personaggio principale.  Bertolucci e Tognazzi creano in effetti un personaggio che avrebbe dato molto da pensare al fondatore della psicoanalisi: monologhi interiori, sguardi, dialoghi spezzati portano in luce l’archetipico conflitto padre-figlio, con dei risvolti inquietanti. Spaggiari-Tognazzi è artefice infatti di una sorta di rovesciamento del conflitto edipico: è il padre, in alcuni tratti, a tentare di “uccidere” il figlio, di eliminarne la presenza, nonostante l’affetto che nutre nei suoi confronti. Si prenda ad esempio la scena in cui tenta un approccio amoroso con Laura (Laura Morante):  avvalendosi della scusa della scomparsa e della presunta morte di Giovanni, egli tenta di sostituirsi a lui nel cuore e nel letto della ragazza, con un risultato fallimentare, in una scena che si conclude con la testa del personaggio china sul seno della ragazza, come quella di un bambino sul seno della madre. Può dirsi che per tutto il film Spaggiari abbia quasi interesse a voler vedere eliminato il figlio, ossia chi lo accusa di essere un uomo ridicolo e la cui scomparsa rischia di “castrarlo”, di togliergli ciò che più ama. A sua volta, l’ambigua conclusione porterebbe in luce l’altro lato di questo conflitto familiare, in cui parte attaccante e vincente sembrerebbe essere proprio il figlio: sorrisi, battute e qualche sguardo incerto sono quasi sul punto di suggerire che in realtà il rapimento non sia mai avvenuto e che Giovanni abbia simulato tutto per causare il fallimento del padre, distruggere il patriarca in ciò che più egli ama e mettere a nudo la sua “ridicolaggine”.
Bertolucci si è avvalso di una regia splendida, delicata, a tratti soffusa e oscura come in un noir francese, evidente nelle riprese del paesaggio immerso nella nebbia, con la macchina da presa che si sofferma sovente sui protagonisti, talvolta in maniera sfuggente. Passando agli interpreti, non si può non elogiare l’ottima prestazione di Ugo Tognazzi, in una delle sue più efficaci prove d’attore (non a caso, sarà insignito della Palma d’Oro al Festival di Cannes), bravissimo a svincolarsi dal sapido sarcasmo del conte Mascetti di Amici miei e dalla graffiante ironia dei vari Vizietti. Notevole è Laura Morante: intensa, a tratti sfuggente, è con lei che Tognazzi mette su una delle migliori scene del film, quella della tentata seduzione di cui si parlava poco più sopra. Da segnalare sono inoltre un’affascinante Anouk Aimée (tra l’altro, una delle interpreti preferite di Fellini) e un Victor Cavallo segnato, quasi al limite del tossico, nei panni del prete operaio. Chicca finale: Giovanni è interpretato da Ricky Tognazzi, figlio di Ugo, oggi fra l’altro prolifico attore e regista dalle alterne fortune.

di Pippo Di Mauro

VOTO: ****

Regia: Bernardo Bertolucci
Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci
Produzione: Giovanni Bertolucci
Interpreti principali: Ugo Tognazzi, Anouk Aimée, Laura Morante, Victor Cavallo, Ricky Tognazzi, Vittorio Caprioli, Renato Salvatori

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Psyco: la purezza dell'arte del ''brivido''



Sono pochissimi quei cineasti il cui nome è associabile all'idea stessa di cinema. Tanto costoro hanno contribuito all'innovazione del linguaggio cinematografico, raggiungendo vette artistiche, tecniche e ,in certi casi, poetiche, che le loro opere sono diventate gli elementi costitutivi e basilari della settima arte. Da molti considerato il più grande genio cinematografico mai esistito, Alfred Hitchcock (1899-1980) rispecchia assolutamente il modello ideale di regista. In particolar modo, quando si parla di thriller, gialli, film di spionaggio e anche horror, dovrebbe risultare naturale a intenditori e non, fare riferimento a capolavori come Intrigo Internazionale (1959),  Notorious (1946), La  Finestra sul Cortile (1954) e,naturalmente, Psyco (1960). Nel 1959, sembrava che Hitchcock avesse raggiunto l'apice della carriera, avendo già firmato una serie di capolavori praticamente ininterrotta, da Rebecca, la prima moglie (1940) a Notorious, fino all'osannato La Donna che Visse Due Volte (1958), oltre alle pellicole già citate prima. Ma nel 1959 Hitchcock compra i diritti di un romanzo di genere thriller di Robert Block che si intitola Psycho, e decide di volerne fare la trasposizione cinematografica. Questa è la genesi del film thriller-horror che ha maggiormente influenzato la quasi totalità dei film horror e thriller successivi, oltre che uno dei maggiori capolavori del ''Maestro del brivido''. La trama è assolutamente semplice e lineare: Marion, segretaria di un agenzia immobiliare, ruba 40 000 dollari depositati da un cliente all'agenzia per cui lavora, e fugge in macchina. Durante una giornata di pioggia la donna giunge in un motel sperduto, gestito da uno strano giovane, Norman Bates, introverso e inquietante. Norman sembra attratto dalla giovane donna, momentaneamente unica cliente del motel, e le chiede di cenare con lui. Ma la madre iper-protettiva di Norman, che a quanto dice il figlio non può uscire perchè molto malata, lo chiama in casa per dirgli che non vuole che stia con un'altra donna. Marion assiste alla lite dall'esterno, vedendo in lontananza le sagome di Norman e della madre seduta. Dopo la cena nel motel, Marion va a farsi una doccia nella sua camera, ma mentre è intenta a lavarsi, un personaggio misterioso, che sembra vestire abiti femminili, uccide brutalmente la donna a coltellate. E' stato Norman o la madre a trucidare la povera donna? Vedendo il film fino al suo straordinario epilogo, non solo vengono insinuati i dubbi più profondi nella pur evidente legittimità di questa domanda, ma viene minata nelle sue fondamenta la convinzione della razionalità della psiche umana. 
Questa operazione è resa possibile da Hitchcock, grazie all'evidente costruzione narrativa fondata sulla suspense, l'arte di saper tenere continuamente in tensione (come ''sospesi'' appunto) gli spettatori, mantenendo per tutta la narrazione una forte sensazione di inquietudine e insicurezza; il regista utilizza vari espedienti per realizzare tutto ciò. In Psyco, la suspense raggiunge l'apice. Sembra infatti, che tutte le informazioni per risolvere il caso siano state svelate allo spettatore, e nonostante sia effettivamente così, non si può avere la certezza assoluta che l'assassino sia la madre o sia il figlio Norman. Sicuramente uno dei punti forti del film è il fatto che esso si basi su un continuo inganno che viene perpetrato ''a danno'' degli spettatori. Da un lato, sembra sia chiaro che l'assassino sia la madre: l'assassino indossa abiti femminili e Norman arriva sulla scena del primo delitto con aria sconvolta, non sapendo niente dell'omicidio della donna, e quindi cerca di occultare tutta la scena del delitto per proteggere la madre che rischia di essere scoperta; ma da un altro punto di vista, la figura di Norman è troppo ambigua e bizzarra, dal comportamento a tratti scostante e al contempo mite, una contraddizione vivente. Egli è estremamente attaccato alla madre che lo opprime, non sembra avere alcun amico, la sua unica passione (se si può definire tale) è impagliare uccelli. D'altronde, chi conosce un po' lo stile di Hitchcock, sa che il regista britannico amava rappresentare personaggi moralmente e psicologicamente ambigui, cercando anche di creare una parziale o totale identificazione fra quei personaggi e lo spettatore. Un'altra strategia che Hitchcock utilizza per ''giocare'' con lo spettatore, ingannarlo, dargli delle impressioni e delle informazioni fuorvianti, è lo stratagemma del MacGuffin. Questo stratagemma è un semplice espediente che non ha una vera importanza nella trama del film, ma che costituisce la parte iniziale di esso, è il pretesto narrativo per condurre la storia verso quello che sarà il vero intreccio. Infatti, in Psyco, il MacGuffin è costituito dalla valigia con i 40 mila dollari rubati dalla segretaria Marion. In seguito diverrà evidente che il furto, la fuga della donna e la stessa valigetta con i soldi erano solo gli elementi di un unico procedimento, un semplice pretesto che doveva condurre Marion al motel dei Bates, la pecora nella tana del lupo. L'iniziale interesse per il destino della valigetta con i 40 mila dollari sarà completamente accantonato a favore della  vicenda vera e propria, cioè gli efferati omicidi compiuti nel Bates Motel. Come affermava Francois Truffaut (1932-1984), regista e principale esperto del cinema hitchcockiano, in fin dei conti il MacGuffin ''non è niente'' . Oltre agli straordinari stratagemmi per ottenere la vera suspense, si deve sottolineare il carattere fondamentalmente psicanalitico del film. Il protagonista Norman soffre di un attaccamento patologico, di una gelosia eccessiva nei confronti della figura della madre: il complesso di Edipo freudiano, come d'altronde il tema dell'inconscio in generale rimase sempre un'ossessione per Hitchcock. Psyco rimane ancora oggi così attuale proprio grazie a queste suggestioni e ambiguità che affascinano lo spettatore: un film intriso di una insana necrofilia, che mette in luce la tematica attualissima del travestitismo, e che analizza un caso di sdoppiamento, o ,sarebbe meglio dire, sovrapposizione di identità. Ma l'elemento di straordinaria originalità artistica di questo film, e ancora oggi oggetto di studio, rimane sicuramente lo stile della regia, cui si aggiunge la straordinaria tecnica di montaggio. La prova di ciò risulta evidente in alcune scene del film, ormai leggendarie. Come non citare la celebre scena dell'omicidio nella doccia: occorsero 72 posizioni della cinepresa, per realizzare questa scena di brutale accoltellamento di 22 secondi in cui sono compresse, grazie ad un serratissimo montaggio, 35 inquadrature del coltello che si scaglia contro Janet Leigh, senza che si veda mai l'arma che si conficca nel suo corpo. Come in ogni film di Hitchcock, la cinepresa è un vero e proprio personaggio ''invisibile'': l'uso straordinario della soggettiva permette l'immedesimazione dello spettatore con il protagonista Norman, con la sua visione distorta e malata della realtà. Nella scena in cui Norman arriva sulla scena del delitto, proprio questa tecnica alternata ad un primo piano, dà l'impressione che Norman sia stato all'oscuro sino a quel momento dell'assassinio avvenuto: si attua un processo di straniamento dalla verità dei fatti, che, nonostante tutto, non si presenterà come qualcosa di totalmente spiegabile razionalmente, restando sempre sul piano dell'ambiguità. All'epoca, alcuni critici mostrarono un certo disappunto per il disimpegno intellettuale di Hitchcock in questo film, che appariva come un esercizio di stile fine a se stesso. Ma, proprio questo aspetto di Psyco, concepito come opera di cinema puro, di ''arte per l'arte'', fine a se stessa e senza scopi di altro genere (morale, sociale, etc) se non quello di far provare la più pura e spontanea suspense attraverso il semplice susseguirsi di immagini, appare,oggi come allora, come un vero trionfo per la settima arte. Il successo del film fu garantito anche dalla magistrale interpretazione di Anthony Perkins, che impersonò il nevrotico Norman Bates con una tale intensità e immedesimazione, da essere consacrato come il ''pazzo'' più famoso della storia del cinema, restando imprigionato per il resto della carriera in questo tipo di ruolo. La colonna sonora incalzante di Bernard Hermann è un altro punto forte del film, l'ennesimo marchio di fabbrica che rende immortale quest'opera. Con Psyco, nel 1960, Hitchcock ottenne il più grande successo commerciale della carriera, incassando 50 milioni di dollari, mentre il film era stato girato con un budget di 800 mila.
L'influenza di Psyco sulla stragrande maggioranza di autori di film horror continua da 50 anni a questa parte: in film come Profondo Rosso (1975) di Dario Argento, La Casa (1981) di S. Raimi, la saga di Scream di W. Craven, Seven (1995) di D. Fincher , gli horror di Carpenter e molti altri, appare palese l'ispirazione tratta dallo stile e dalle tematiche hitchcockiane di Psyco. Anche per questa ragione, il film è un classico imprescindibile, come classica è ormai l'intera filmografia di Alfred Hitchcock.


di Andrea Raciti


VOTO: *****

Regia: Alfred Hitchcock
Sceneggiatura: Joseph Stefano
Produzione: Shamley Productions
Interpreti Principali: Anthony Perkins, Janet Leigh, Vera Miles, John Gavin
Genere: thriller, horror, giallo
Anno: 1960


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Classifica dei 10 Migliori Film del 2011 secondo ''THE FINAL CIAK!''



1) The Tree of Life *****

Regia: Terrence Malick
Sceneggiatura: Terrence Malick
Interpreti: Sean Penn, Brad Pitt,
Jessica Chastain
Genere: Drammatico
Durata: 142 minuti





2) The Artist *****


Regia: M. Hazanavicius
Sceneggiatura: M. Hazanavicius
Interpreti: Jean Dujardin, Berenice Bejo,
John Goodman, James Cromwell
Genere: Commedia drammatica
Durata: 101 minuti














3) Midnight in Paris ****


Regia: Woody Allen
Sceneggiatura: Woody Allen
Interpreti: Owen Wilson, Rachel McAdams
Marion Cotillard
Genere: Commedia, Fantastico
Durata: 100 minuti









4) This Must Be The Place ****


Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto
Contarello
Interpreti: Sean Penn, Frances 
McDormand
Genere: Drammatico
Durata: 118 minuti










5) Terraferma ****


Regia: Emanuele Crialese
Sceneggiatura: Emanuele Crialese
Interpreti: Donatella Finiocchiaro,
Beppe Fiorello, Filippo Pucillo
Genere: Drammatico
Durata: 88 minuti












6) The Fighter ****


Regia: David O. Russel
Sceneggiatura: Keith Dorrington
Interpreti: Mark Wahlberg, Christian Bale,
Melissa Leo, Amy Adams
Genere: Biografico, Drammatico
Durata: 115 minuti










7) Il Grinta ****


Regia: Joel e Ethan Coen
Sceneggiatura: Joel e Ethan Coen
Interpreti: Jeff Bridges, Matt Damon, Josh Brolin
Genere: Western, Avventura
Durata: 110 minuti










8) La Pelle che Abito *** 1/2


Regia: Pedro Almodovar
Sceneggiatura: Pedro Almodovar
Interpreti: Antonio Banderas, Elena Anaya
Marisa Paredes
Genere: Drammatico, Thriller
Durata: 120 minuti










9) Le Idi di Marzo *** 1/2


Regia: George Clooney
Sceneggiatura: George Clooney
Interpreti: George Clooney, Ryan Gosling
Philip Hoffman, Paul Giamatti
Genere: Thriller politico, Drammatico
Durata: 98 minuti








10) Le Avventure di Tin Tin *** 1/2


Regia: Steven Spielberg
Sceneggiatura: Steven Moffat
Genere: Animazione, Avventura
Durata: 107 minuti












di Andrea Raciti





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''THE FINAL CIAK!'' spegne la prima candelina!






Ebbene si! E' passato un anno esatto da quella serata autunnale dell' 8 dicembre del 2010, da quando diedi vita a questa ''creatura'' virtuale, chiamandola con un nome che evocasse qualcosa di compiuto, definitivo, appunto un ''ciak finale''. Un'immagine semplice che personalmente mi aveva sempre affascinato. 
Nel corso di quest'anno, nonostante il blog abbia ottenuto una sua ''sistematicità'', con una netta distinzione fra le varie categorie di articoli ( recensioni, classifiche, articoli sui grandi registi, etc), sono contento di affermare che, come è tipico per un blog, ''THE FINAL CIAK!'' è sempre rimasto un contenitore di liberi pensieri sul cinema, pensieri che sono stati sempre frutto delle passioni, delle suggestioni, dei desideri dell'autore. Questo blog ha tenuto sempre presente un obiettivo semplice: presentare nel modo più completo ed esauriente possibile gli argomenti trattati, in modo da dare al lettore la possibilità di apprestarsi alla visione di un film in modo critico e consapevole. Questa capacità purtroppo non sembra più appartenere alla maggioranza del pubblico del cinema, che, forse a causa della società di massa consumista, ma anche per colpa delle strategie hollywoodiane e non di stampo quasi esclusivamente commerciale, considera ormai la visione di un film alla stregua della consumazione di un pasto al McDonald's. E' triste vedere la settima arte essere ridotta ad un semplice prodotto di consumo veloce e di intrattenimento facile. Con ciò non si vuole affatto affermare che il cinema debba perdere la sua funzione di intrattenimento, ma è pur vero che è possibile realizzare film di intrattenimento, e di successo, ma di grande spessore artistico ( i film di Woody Allen, dei Coen, di Scorsese, di Tarantino o di Sorrentino per citarne alcuni) o al contrario, di grandissimo impatto commerciale, ma insignificanti dal punto di vista artistico, costruiti praticamente ''a tavolino'' per sbancare il botteghino ( i film di Neri Parenti e Vanzina in Italia, i vari Saw, Paranormal Activity, Twilight, gli ultimi Harry Potter per gli USA, ma ce ne sarebbero a bizzeffe). Sembra che ci sia la volontà da parte delle industrie cinematografiche di far dimenticare al pubblico la lezione fondamentale dei grandi Maestri  (Fellini, Kubrick, Wells, Ford, Hitchcock, Leone, Visconti, Pasolini e molti altri): il grande cinema deve essere un'opera d'arte, frutto di un atto creativo incondizionato, che riesca a fondere il piacere dell'intrattenimento con l'attenta riflessione critica. Ma ancora, forse, il cinema contemporaneo non è arrivato così in basso da non poter tentare una radicale rivoluzione culturale e di  forma mentis  al suo interno: almeno così di spera!
Dopo questa breve riflessione, per la ricorrenza di questo primo anno di vita del blog, vorrei ringraziare per la loro importantissima collaborazione: Lorzo94, nuovo autore del blog da Settembre, già esordiente con la recensione su Eraserhead , e Pippo di Mauro, che ha scritto per il blog la recensione su Dies Irae. Infine, ringrazio tutti i lettori, fissi e saltuari, che hanno avuto il piacere di informarsi su questo blog! 
Alla prossima recensione!

Andrea Raciti










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Classifica delle 10 migliori commedie della storia del cinema secondo ''THE FINAL CIAK!''





La Classifica:

1) La Febbre dell'Oro (1925) di Charles Chaplin
2) Amarcord (1973) di Federico Fellini
3) Tempi Moderni (1936) di Charles Chaplin- Fra Diavolo (1933) di Hal Roach
4) Il Grande Lebowski (1998) di Joel e Ethan Coen
5) A Qualcuno Piace Caldo (1959) di Billy Wilder
6) I Soliti Ignoti (1958) di Mario Monicelli
7) Manhattan (1979) di Woody Allen
8) Frankenstein Junior (1974) di Mel Brooks
9) The Blues Brothers (1980) di John Landis
10) M*A*S*H (1970) di Robert Altman

di Andrea Raciti














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